“Mia mamma era orfana” rispose la tartaruga quando la interrogarono.
Era stata sorpresa dalla pattuglia che vigilava i confini del campo. Qualcuno aveva avvisato i soldati che una strana creatura si aggirava sospetta strisciando ventre a terra dove nessuno doveva trovarsi.
Le tartarughe, lo sanno anche i bambini, non fanno del male a nessuno e sono molto paurose. Si crogiolano al sole quando è caldo, si buttano nell’acqua al primo pericolo.
Uga era molto curiosa ed ingenua. Era convinta che tutti le volessero bene ed era molto contenta di essere al mondo. Andava in giro volentieri a scoprire che cosa ci fosse attorno a lei.
La sua mamma era molto intelligente e le aveva raccontato tante cose, l’aveva tirata su bene. Sapeva che cosa significa soffrire la fame e la solitudine: era stata in collegio fin da piccola dalle sorelle tartarughe di un campo sabbioso vicino al mare. Quando era diventata grande era stata accolta in casa dalla zia Gigia, una tartaruga senza famiglia e senza figli, che viveva col fratello su una collinetta che guarda il mare, in un vecchio nobile castello che esiste ancora.
Lì aveva incontrato Enrico, il tartarugo fico. Bello e ricco. Due campi di insalata ricciolina tutti suoi ed una cultura non da poco. Era un “dottore”. Era stato educato dai padri tartarughi di Faenza, sulle sponde del Lamone, terra di ribelli e di santi, uno strano miscuglio di guelfi e ghibellini.
“E allora? - la affrontarono sgarbati – Che cosa ci fai qui, al buio? Che cosa stavi preparando? Chi sei? Chi ti ha dato il permesso? Perché non stai al tuo posto? Perché turbi la quiete dei tuoi vicini?”
Uga non si rendeva ancora conto. Era semplicemente uscita a fare due passi, lentamente, contemplando le stelle e masticando qualche foglia qua e là, tanto per assaggiare nuovi gusti.
C’era una falcetta di luna così invitante ed una stella in cielo brillava così gentilmente…
Un grosso rospo le aveva attraversato la strada senza una parola, con quel suo sguardo sempre imbronciato; ma non le aveva detto “Fatti più in là!”. Una lucertolina che andava all’asilo l’aveva guardata stupita e sorridente. I grandi tigli le avevano offerto tutto il loro profumo ed il lombrico del sentiero a destra dopo la prima curva le aveva camminato a fianco per un piccolo tratto poi si era infilato nell’erba affondando nella terra.
Lentamente, tranquilla, aveva camminato per tanto tempo. Chissà come era finita lì?
Ma chi aveva allertato le guardie attribuendole pensieri cattivi e propositi biechi, che lei non aveva mai avuto? Era semplicemente uscita a fare una passeggiata. Tutto qui.
“Mia mamma era orfana – riprese – ma mi ha sempre voluto bene. La nonna Caterina aveva preso freddo un giorno nel campo, sotto la pioggia d’inverno. Uno sternuto, non è niente, due, tre, la tosse…il tartarugo dottore era arrivato quando ormai Caterina aveva già alzato le gambe in su. Non c’erano tanti dottori allora…Erminio, il babbo era morto di crepacuore. Un dolore troppo grande. Voleva bene bene a quella tartarughina incontrata nel campo di là dal fiume e avevano messo al mondo otto tartarughini, uno più bello ed amato dell’altro.
Così, da un giorno all’altro la mamma di Uga, le sue sorelle e i suoi fratelli si erano trovati soli.
Ma le tartarughe, lo sanno anche i bambini piccoli, sono animali vecchi e saggi.
Chi da un parte, chi dall’altra, tutti furono accolti dalle tartarughe vicine e vissero.
La mamma di Uga era bellissima, come un angelo. Sapeva fare tutto e imparava tutto. Era molto curiosa, molto intelligente e molto buona. Uga aveva preso da lei, ma era più ingenua e si metteva spesso nei guai.
“Sta attenta – l’ammoniva la mamma – il mondo non è come pensi tu”
“Il mondo ha delle regole e bisogna starci” gli ripeteva un gufo suo amico, tanto saggio quanto tenero nei confronti di questa strana tartaruga bizzarra e sprovveduta.
Erano state gentili le guardie, non l’avevano legata. L’avevano solo presa per la corazza e messa su uno strano carro chiuso da cui non poteva uscire. L’avevano portata in una sala bianca, con tanta luce dove una buffa creatura con tanti anelli e riccioli neri l’osservava severa e gentile.
Poi, messa la lingua fra le labbra aveva cominciato a scrivere scrivere e non finiva più.
“Fa’ la brava, Uga, adesso ti riportano a casa; ma non arrivare più fino al confine. Non si può!” le aveva raccomandato alla fine.
Uga assentì, ma non riusciva a capire perché non si potesse.
Ubbidì. Guardò la falcetta di luna e la stella che le brillava a fianco. Tornò a casa e si addormentò.
“Mia mamma era orfana – pensò – ma mi ha sempre voluto bene. Chissà come mai?”
Il pensiero si spense lentamente e Uga si ritrovò in un campo senza confini. Dovunque andasse nessuno le diceva “qui no” “la no”. Si risvegliò vicino al vecchio muro di mattoni che la riparava dal vento e dal sole.
Aprì gli occhi. Guardò all’intorno e riprese a camminare, paziente, nella sua corazza pesante e leggera.
“Mia mamma era orfana; ma mi voleva tanto bene”.
Incontrò, dietro il tiglio, la sua amica gazza che stava facendo colazione sull’erba. Un grillo canterino, poco più avanti la salutò allegramente e la cicala del platano a destra le dedico una lunga cantilena.
Guardò dolcemente i bambini che si divertivano con gli scivoli e le altalene.
Alzò la testa al cielo, allungando il collo ed aprendo bene gli occhi.
Il sole la illuminò di nuovo e la scaldava, come sempre.
Uga non aveva famiglia: tutto il mondo lo era.
Aveva tutto il mondo per sé.
Chissà chi aveva allertato le guardie?
Nessun problema. Era amata e sarebbe diventata grande.
Come sua mamma, che pure era orfana e le aveva sempre voluto bene.
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