giovedì, dicembre 19, 2019

ΠΑΙΑΝΙΖΩΜΕΝ !


ΠΑΙΑΝΙΖΩΜΕΝ !
Innalziamo il nostro canto di vittoria!

Fin qui arrivavano anche i Greci, quel popolo saggio. Ci arrivavano anche i cinesi, geniali, acuti, tenaci, inventivi. Fin qui. Che un dio potesse salvare e condurre alla vittoria, l’uomo l’ha sempre creduto. Un dio, qualsiasi dio, Apollo in primis o il Signore del Cielo, Tien Zhu.
Ma che un povero ragazzo sfortunato, nato malato fin dal seno di sua madre, figlio di un semplice operaio di un piccolissimo Stato, di una repubblica antichissima e gentile, potesse innalzare il suo canto di vittoria con tutti i suoi cari, questo era inconcepibile, strano, assurdo, da illusi.

Francesco è il suo nome. Appena uscito dalla pancia della mamma, nemmeno il tempo di gridare il suo primo vagito, è subito portato in sala operatoria. I medici hanno deciso di salvarlo – non sono dei – ma questo bambino deve vivere; qual è il suo compito?
Comincia subito a soffrire, il cuore non tiene, non può tenere.

“Signora, Signore, l’aborto è l’unica opzione”. Che sentenza terribile!
Il povero operaio non ha dubbi. Deve nascere, deve vivere. Dio lo vuole e noi chi siamo per dirgli di no?
Sdraiata nel letto, immobile, quasi disperata, la mamma trema al solo pensiero: “Cosa sarà di lui?” Allunga una mano, afferra la corona. Una grande pace l’avvolge. Francesco nascerà. Ed eccolo là, sotto i ferri e quelle facce affannate coi camici bianchi, che nemmeno vede, dei quali nemmeno conosce il significato.

La piccola Elisa lo vede vivere, casa e ospedale, ospedale e casa, giorni, anni… non ha mai avuto dubbi: il suo fratellino è suo e non lo abbandonerà mai, da piccolo, da grande e, se Dio vorrà, da vecchio, chissà?!

Gli zii, le zie, gli amici, le amiche, le maestre, i prof, tutti ne godono. Allegro, vivace, sereno, scanzonato, furbetto davanti alla matematica, “perché, sa, Prof, io sono malato”. I giochi al PC, la birra del babbo, gli aghi nel braccio, gli scherzi agli amici. Chi lo ammazza più?
I pranzi, le feste, le carissime cugine, lo zio preferito che lo introduce ai misteri dei motorii e dell’informatica, con cui fa lunghe chiacchierate disteso sul divano e le labbra viola, sempre più viola, il cuore che non si arrende e non cede, ma ansima e tutto costa tanto, perfino muoversi un po’.

Ventun anni sono lunghi e corti al tempo stesso. Una volta si era appena maggiorenni. Ogni anno conquistato a fatica, come gli 8.000 del K2 e Francesco non molla.

Il babbo – che grazia avere un babbo che ti accompagna roccioso, forte e sempre vicino, come il bastone che si mette agli alberi in crescita perché il vento della vita non li schianti a terra!
La mamma, che quando a freddo sente freddo anche per te, la donna che ti avvolge e che ti porta a scuola sfidando vigili e invorniti, la donna che non crolla quando tutto sembra crollare. La mamma così fragile e forte che perfino Gesù ha voluto per lui e di cui si fida quasi da illuso.

Il cuore che arriva e non arriva, il cuore di un altro che potrebbe fornirti un po’ di vita in più.
Quel cuore nato già stanco. che non si è mai stancato, vorrebbe tanto riposarsi.

Ed ecco si ferma. Nessuno può nulla più. Piangono i medici, piange la mamma e si stringe al babbo. Quanto amore e quanta pace in questo abbraccio! Riconsegnano insieme il dono che insieme hanno ricevuto e custodito.

Che gran dolore e che grande pace!

Ventun anni di fronte al mondo e di fronte all’eterno cosa sono mai? 
Francesco non è più; è più forte di prima.
Quel cuore riposa e batte, fermo, costante, ora, senza più esitare, senza bisogno di medicine. Batte. Batte. Per tutti noi, che abbiamo avuto la grazia di camminare con lui. Ci aspetta. Ci chiama. Ci batte la strada.

Ecco, oggi, noi tutti, innalziamo il nostro canto di vittoria. Surrexit Dominus vere.
Ecco nasce, fra poco e sempre, nasce il Dio che salva, il Dio che vince.

Nessuno avrebbe puntato un euro sulla vita di Francesco; Dio stesso l’ha compiuta e come l’ha compiuta! 
Noi tutti ne siamo testimoni.



domenica, agosto 18, 2019

La Locanda dei Quattro Anarchici

In un posto né troppo vicino né troppo lontano, ai piedi di una collinetta, a due passi da un fiume, che i pignoli direbbero un semplice fosso interpoderale, lungo una strada poco trafficata, nella quale solo i Carabinieri, di notte, facevano la ronda raramente, c’era una locanda, conosciuta dai più come “La locanda dei quattro anarchici”.
Il nome era antico e non si conosceva chi l'avesse chiamata così; ma mai insegna era stata data con tanta cognizione di causa.

L’anarchico n. 1 era un vero anarchico. Andava e veniva a suo piacimento e nessuno era in grado di dire quando lo si potesse trovare. La prova provata della “indeterminaziore di Heisenberg” su scala non solo subatomica. Era il vero n. 1, ma gli altri tre erano convinti nel cuore di essere loro stessi il n. 1, i veri interpreti della vera anarchia.

L’anarchico n. 2 (ovviamente gli anarchici non hanno un nome, perché è un retaggio di organizzazione sociale, perciò assolutamente da escludersi) era l’anarchico che maggiormente aspirava ad essere il n. 1, ma non lo era, per quanto mettesse sempre il suo carretto dietro e a ridosso del carro dell’anarchico n. 1 onde creargli difficoltà nelle manovre di movimentazione e costringerlo sottilmente  ad abdicare dal suo posto preminente. Per quanto gli anarchici non riconoscano preminenza alcuna, né di dei né di uomini, le cose stavano proprio così: è la eterogenesi dei fini, per cui l’uomo propone e Dio dispone, partendo l’uomo per una sua idea fissa onde interpretare il mondo intero e ritrovandosi un esito del tutto contrario ad essa. L’anarchico n.2 possedeva una bestia di compagnia, bella a tal punto da condividere con lei il suo letto, finendo regolarmente a vederselo occupato tutto, un po’ come fanno le donne sposate, ma almeno le donne, beh, insomma, qualche volta ti danno anche soddisfazione e sono capaci di fare figli. Per quanto l’anarchico sia legge a se stesso, bisogna comunque che qualcuno porti avanti l’idea, chi sia carne della sua carne e sangue del suo sangue.

L’anarchico n. 3 era capitato lì per caso. Viveva bene, da vero anarchico autistico, su una collina che domina ancora il mare e l’aeroporto, con un silenzio interrotto solo dall’autostrada a mezza costa, che lui aveva più volte progettato di far saltare come il famoso Ponte Morandi, essendovi colà un piccolo sovrappasso a scavalcavare l’era salita, che conduceva lassù. Non l’aveva mai fatto per rispetto ai bambini che viaggiavano con le loro famiglie verso Sud o verso Nord. Che colpa ne hanno mai loro?! Questo anarchico strano amava i bambini e le formiche, perché entrambe queste categorie di bestioline sono dipendenti in tutto, insomma appartengono e lui invece non sapeva nemmeno cosa volesse dire questa parola. Forse una strana nostalgia di qualcosa, che pure lui intuiva confusamente fosse presente nell’universa realtà.  L’anarchico n. 3 a suo modo era, o meglio si credeva il n. 1, perché non conosceva ordine e tutto ciò che gli capitava fra le mani era suo: accumulava di tutto, dalle spille da balia ai vestiti usati, dai gingilli infantili alla carta dei pacchi. Mah! L’anarchico n.1, quello vero, lo aveva portato con sé perché l’aveva raccolto un giorno e ne aveva avuto pietà, pensando in cuor suo “Cosa può combinare questo lasciato a se stesso?!”

L’anarchico n. 4 era l’oste. Capitato nella locanda un tempo infinitamente lontano, si concepiva tutt’uno con la locanda. Lui era la locanda; gli altri, tutti gli altri ospiti occasionali, erano da dirigere, regolare, inquadrare, condurre. Era un “anarchico organizzato”! Faceva la spesa, gestiva la cassa, curava la cucina e gli spazi comuni, stabiliva se una cosa era giusta o sbagliata secondo la vera anarchia organizzata. Regolava l’altezza delle serrande e la chiusura o l’apertura delle finestre e delle porte, verificava che tutto fosse in ordine, il suo ordine: un vero anarchico è depositario della verità vera e incontrovertibile, la sua. Era la personificazione dell’anarchia rigorosamente anarchica: io sono il principio e la fine di ogni cosa, io sono legge a me stesso. Tutti gli altri 3 anarchici non erano ai suoi occhi veri anarchici; per questo dovevano diventare anarchici. A qualsiasi costo.

L’anarchico n. 1 era, si sussurrava tra i vicini, il vero anarchico. Fin da piccolo entrava e usciva da casa sua a suo piacimento per i suoi piaceri, un tempo infantili, poi via via giovanili e maturi. Aveva rinunciato alle gioie e alle pene del matrimonio, perché le donne non ti permettono di vivere da anarchico: vogliono fare le locandiere a prescindere. Perfino suo babbo, al tempo in cui i padri erano padri, diceva di lui che non sarebbe mai morto sotto le macerie di casa in caso di terremoto… Il suo carro, tirato da molti cavalli, era sempre in movimento e solo Dio (pardon, Dio non esiste) era capace di tenerlo fermo qualche ora, ma non tante, mandandogli ogni sera il sonno ristoratore. Per il resto la sua giornata era lunga 19-20 ore a seminare l’anarchia nei cuori di tanti, un vero “anarchico-missionario”, una specie di prete-anarchico per intenderci (questa precisazione è data per i paesi ancora soggetti all’oscurantismo cattolico). Non aveva mai pace, tranne quando si sedeva a tavola, rarissimamente nella locanda, spesso nelle case dei suoi “fedeli”, perché si mangiava meglio, ma non lo avrebbe mai ammesso,, nemmeno sotto tortura. La sua anarchia era rivolta quasi esclusivamente a gustare cose buone in ogni dove, nelle povere famiglie proletarie e nei ricchi banchetti dei possidenti. L’anarchia è una scelta di vita… Non disdegnava nemmeno il cappuccino e brioche offerto dagli avventori del Bar del Lavoro o l’accogliente tazza di latte con biscotti casarecci di una cuoca generosa, che era madre di un anarchico molto giovane, e che sperava di introdurre il figlio alla sapienza consolidata di un tale Maestro.
Anarchici di lungo corso lo tampinavano quotidianamente, da ogni dove. L’anarchia è un’opzione, il vero modus vivendi et operandi, ma un anarchico deve pur mantenersi per vivere e il modo più semplice di vivere è condividere con altri anarchici i beni di questi ultimi. Una fila ininterrotta di anarchici veniva da ogni dove per parlare con l’anarchico n. 1 e finivano sempre per andarsene con un po’ di soldi suoi. L’anarchia fa girare l’economia…

L’anarchico n. 2 si era fatto la sua posizione. Da semplice lavoratore a direttore di una cooperativa, che dava assistenza a vecchi soli e abbandonati. Un ufficio, le conoscenze giuste, dipendenti a obbedienza cieca e qualche bega con gli Enti Pubblici. Era l’unico anarchico sposato, un errore di gioventù pagato caro, ma ben sopportato con una chilometrica distanza dalla donna del suo cuore, che insegnava a ragazzi svogliati, desiderosi di farsi una posizione all’estero. In fondo, però, anche gli anarchici con figli e nipoti, sono contenti di veder la moglie… non più di una volta all’anno, però, se no l’anarchia, l’ideale, se ne va a farsi friggere…

L’anarchico n. 3 non sapeva cosa fare tutto il giorno e si chiudeva in una stanzetta disordinata e cupa a scrivere, scrivere quello che l’anarchico n. 4 considerava a buon diritto “solo c…”, in termini civili “sciocchezzuole”. Era mal sopportato per il suo modo naif di essere anarchico, un vago miscuglio di anarchia poetica e inconcludente, che l’aveva conquistato fin dai tempi della scuola, in reazione all’ordine costituito, che voleva togliergli il suo amore per la libertà. “Eri così bello da piccolo; com’è che ti sei ridotto così?” gli aveva detto un giorno sua sorella. L’amore alla libertà porta alla libertà o all’immagine della libertà. Questo l’anarchico n. 3 aveva dovuto constatare con grande dolore; per questo seguiva, cum grano salis, l’anarchico n. 1. Incompreso come tutti i poeti, era un bel figlio di p… “con tutto il rispetto per tua mamma, che non lo è” gli aveva detto un’amica, che aveva vinto l’anarchia e gli voleva molto bene, nella speranza che anche lui ci riuscisse. Era morta con questo desiderio irrealizzato, ma con la segreta speranza che un giorno questo sarebbe avvenuto, misteriosamente.

L’oste era un anarchico tenace, deciso, organizzato, come abbiamo detto; ma aveva un cuore grande e, sotto la sua anarchia, covava una generosità entusiasmante, una capacità di lavoro unica, un’accoglienza burbera, ma aperta. Era un minimalista, una sorta di monaco essenziale, il contrario dell’anarchico n. 3. Usava un carro d’antan, non all’ultima moda. Parco, acquistava beni solo al minor prezzo possibile, ma era capace di accompagnare gli amici in altre città senza chiedere nulla. Rispettoso come un anarchico devoto, desiderava che tutti fossero come lui, anarchici di razza pura.
L’anarchico n. 3, che era un “anarco-meticcio”, gli faceva spesso perdere la trebisonda, ma egli riusciva a controllarsi e si limitava a ignorarlo, sperando in cuor suo di riuscire nell’intento di ottenere da lui quello che era stato il desiderio segreto dell’amica di cui sopra. L’anarchico n. 3, quando ci si metteva, magari senza nemmeno rendersi conto, era davvero insopportabile ed aveva rischiato più volte di prendere le botte perfino dall’anarchico n. 2, che spesso, con grande degnazione, si limitava a prenderlo in giro, pur essendo venuto occasionalmente a conoscenza di certi segreti della sua vita.

Solo l’anarchico n. 1 riusciva, a fatica, a tenerlo un po’ a bada, nella considerazione, errata, che fosse un genio: era semplicemente un irresponsabile.

Ma, come succede nei migliori romanzi, tipo i Tre Moschettieri, nella locanda giunse un bel giorno l’anarchico n. 5, un intellettuale di tutto rispetto.
L’anarchico capo, se mai possa aversi questa definizione, lo aveva mandato nella locanda per dare una mano all’anarchico n. 1.

L’anarchico n. 5 è un anarchico DOC. Rigorosamente ligio all’anarchia anarchica, si sveglia presto, legge, scrive, studia e fa strani riti, che lo innalzano fino all’Anarchia, l’ideale sommo. Viaggia anarchicamente tutto il giorno, senza che sia dato ad alcuno di conoscere luoghi e tempi di questa attività. Silenziosamente parte, silenziosamente torna. Educa e istruisce gli allievi che giungono a lui, poi si chiude in camera e fino alla sveglia antelucana nessuno vi ha accesso.
L’anarchico n. 1 gli vuole bene, lo protegge e lo stima. Lo usa anche, per la verità, chiedendogli di istruire le persone che giungono alla locanda mentre lui va, va, va…in vacanza, per mari, per monti o territori sconosciuti, laddove la sua anarchia lo conduce.
L’anarchico n. 1 è molto contento dell’anarchico n. 5, che è ben accetto da tutti, perché non dà fastidio e preoccupazioni, tranne forse per la sparizione veloce di qualsiasi genere di peperoncino, in qualsiasi genere di confezione o di preparazione; ma questo è decisamente un “peccatuccio” di nessun conto, ben sopportato da tutti
Stranamente, l’anarchico n. 5 ha portato una ventata di pace nella Locanda…

Così era, è e sarà: l’anarchia, per sua natura non ha termine o confine e la Locanda sotto la collina, lungo il fiume che si atteggia a fosso - tranne quando piove forte e fa come il Po o l’Adige o l’Arno nel fatidico novembre del ’66 - è sempre lì, paziente, immobile.

E’ la Locanda dei 4 anarchici, prendete nota.
Venite a vederla, se avete coraggio e passione per la vita!



domenica, maggio 26, 2019

L'Angelina ad Braganòun

Sia benedetta la zia Maria, tenera e forte, come le donne di fede!

L’Angelina correva felice nei campi. Come si può essere a cinque anni, quando tutto stupisce, tutto è nuovo e famigliare? L’Angelina era una contadinella romagnola. La sua casa era in collina, una piccola collina, vicino alla chiesa, che sovrastava il borgo di Corpolò.

“Corpolò, una scarpa sì e una scarpa no” dicevano i riminesi, perché la povertà lì era un obbligo sociale, una triste avita consuetudine. Da 300 anni i Braganòun erano su quel pezzo di terra, gente laboriosa, tenace, solidale, cristiana. Chi non era cristiano a Corpolò, l’ultimo pezzettino del Comune verso le sorgenti del Marecchia?!

Povertà e bambini. Cinque fratelli prima di lei e due sorelle dopo. Pietro, il più grande era il suo “innamorato”, era tutto per lei. I campi, il sole, i giochi, le sorelle, non le mancava nulla, anche se era nata due anni appena dopo la Guerra, l’inutile strage, mentre la spagnola spopolava ciò che era rimasto da quella sciagura.

Le colline riminesi sono di una dolcezza particolare: i monti finiscono nel mare piano piano abbassandosi lentamente e alle spalle l’azzurra vision di San Marino, che veglia su tutti, come un fratello maggiore, come Pitròin, Pietro, appena 18enne.
La polmonite mandava all’altro mondo tanta gente e portò via anche la mamma dell’Angelina, la Caterina di tanta carità. Senza mamma così di schianto e dopo un po’ la mancanza del babbo, un incidente, una brutta storia. Orfana tra gli orfani. Otto bambini senza più nessuno, come potranno vivere?
Il padrone fu buono e Pietro si sposò e tenne il campo e alcuni fratelli. Gli altri alla carità dei parenti e delle suore. Carità vera, piena e senza paura.

L’Angelina era intelligente e molto bella. Le suore volevano farne una di loro, una maestra.  Lei non volle: aveva un’altra strada. Le tante amiche, le tante bambine sole di quei tempi, le mani e il lavoro, i libri e la scrittura, gli affari delle donne, la cucina, il cucito. Don Lazzaro e la Gigia, gli zii, la vollero con sé nel vecchio castello a guardia delle terre dei Signori di Rimini contro il Duca di Urbino. Tempi passati, tempi presenti. E la Guerra che torna, come se non bastasse o non fosse mai finita, la fame, il pericolo, il passaggio dei soldati e la preghiera.

C’è tempo in guerra per l’amore? Una domanda che suo figlio si sarebbe posto a lungo e molti si fanno: mentre tutto è distrutto e l’odio la fa da padrone perfino fra gente sconosciuta e forestiera, c’è posto per sperare, guardare gli occhi di un ragazzo e sentire battere il cuore? Chi è quel ragazzo, alto e colto?
Dall’altra parte della piazza, lungo l’asse maggiore, c’era la casa del Dottore e di qua, vicina e lontana quel tanto che basta, la vecchia canonica col prete, che ama la gente. Il figlio più piccolo, studente all’Università – chissà quante donne conosce e quante ne ha viste e scrutate – l’ha vista e gli piace. Un altro mistero: chissà cosa fa incontrare un uomo e una donna, che cosa si muove, che cosa s’intreccia e perché? Che cosa permette l’incontro, che cosa lo fa maturare…
“L’Angelina va a star bene - dicevano le contadine lì attorno -  si sposa col figlio piccolo del dottore! Non aveva niente e guarda dove va!”
La nonna Francesca, il nonno Giuseppe, lo zio prete e la Gigia, cognato e cognata e tre ragazzine, la sposa in bianco e il giovane timido davanti al fotografo nell’anno del Referendum e delle Elezioni.
Il viaggio di nozze, Venezia e al mare. Partirono da soli; tornarono in compagnia. Usava così: i bambini arrivavano quando volevano, impertinenti e impiccioni, obbedendo solo al buon Dio e non al Family Planning. Altri tempi…

Il tempo necessario e qualche giorno po’ di più – la luna è la luna! - A Maggio l’erede.
I maschi sono sempre belli e molto desiderati, perché portano il nome e danno continuità alla Casa. Il neonato era maschio con tante promesse. Gli fu imposto il nome della nonna e del nonno insieme e ne portò l’onore imperiale: di Francesco Giuseppe ce ne sono davvero pochi al mondo!
Vezzeggiato, coccolato come si usava, crebbe fino all’uso della parola prima che un altro maschio ne limitasse il potere e la gloria, l’affetto e le attenzioni dei due giovani sposi. “Non vi bastavo io?” chiese un giorno alla mamma, svelando un terzo mistero di vita: “Quid animo satis?”, ma era una scusa, un atto di gelosia innocente nei bambini, ma su cui vigilare con tenera cura.
Il fratellino era proprio bello e in fondo un compagno di giochi ci vuole, se no, che noia! Le femmine? Dio le benedica, perché sono belle, anzi bellissime e fino a quando il fratellino non si decide a piangere, dormire e mangiare sempre, fanno compagnia. “Tento!” lo invocava, da dietro una grata nel vicoletto della casa, una bambina, che vecchio, non riusciva ancora a dimenticare. Stefania era un incanto!  Così bella non aveva mai visto niente – la mamma si sa è la mamma ed è insostituibile per sempre – la Stefania era proprio uno schianto!

“Lontano dagli occhi lontano da cuore” recita una canzone e bastarono pochi chilometri e un trasloco perché il suo posto fosse preso dall’Elisabetta. L’Elisabetta fu l’amica del cuore di tutta l’infanzia e la prima adolescenza, fino a quando Luisa Paola entrò di prepotenza e ignara nel cuore del “principino”. Elisabetta portava le trecce e un fiocco su ogni treccia: basta che compaia una ragazza con le trecce e Francesco Giuseppe perde la trebisonda ancora oggi; ma non fu mai innamorato della sua amichetta.
Venne il tempo della scuola, quando tutti i bambini, liberi e curiosi, sono costretti a vestirsi di nero e sedersi a un banco fianco a fianco con altri a imparare quello che i grandi vogliono che s’impari, perfino che Garibaldi era un eroe… Per il nostro amichetto il momento venne in anticipo perché il babbo si accorse un bel giorno che leggeva le targhe delle macchine che passavano sulla strada verso Roma e Cesena, senza che nessuno gli avesse mai detto cos’erano quegli strani segni dietro le auto.
“E’ un bambino intelligente” e finì per compiere il compleanno canonico, quello dei sei anni, previsti dagli ordinamenti reali e repubblicani, quando mancavano pochi giorni alla fine dell’anno scolastico canonico…
Tant’è! Uno “squizzo” minuscolo era il più bravo della scuola, quando ancora i maestri si disperavano per insegnare un po’ d’italiano ai figli dei contadini, veri maestri nel Dialetto Romagnolo.

Amici, preghiere, confessioni, preti, campi, “Monticini”, follìe, corse e studio, giochi, musica e iniziali amoretti furono tutta la sua vita per tanti anni, neve, sole, rondini e razzi artigianali a polvere pirica artigianale, eventi mondiali e TV, la prima TV, quella dei Ragazzi e di Carosello, riempirono le sue giornate per un decennio o giù di lì.
Intanto era nata la Principessa delle Nevi, la femmina più che desiderata, la bellezza meridionale fatta carne, nell’anno di grazia 1956. Maria Rosaria, la prima, in onore della Madonna, come si conveniva allora e si conviene fra le donne italiane era bellissima nel lettone con la mamma a fianco, quando il primo giorno di Febbraio, con una neve che Dio la mandava, il babbo venne a prendere a scuola i due fratelli per mostrarla loro. Poi venne Maria Pia ad avere, com’è giusto, una sorella maggiore cui riferirsi nei momenti di crisi e di bisogno. Del “covanido”, Pier Luigi Angelo, ne parleremo quando è ora, a compiere e sigillare l’impresa dell’Angelina.
Già, perché dell’Angelina stiamo raccontando. D’altra parte, senza mamma niente figli e, conseguentemente, niente nipoti e niente pronipoti e così via.
Dio solo sa che importanza hanno le mamme nella Storia, se Lui stesso ha voluto averne una!

L’Angelina voleva bene a suo marito e pregava tanto per lui perché, insomma, un po’ birichino era, come tutti gli uomini in genere, ma anche nello specifico perché era buona norma, nella famiglia del Dottore, a tempo opportuno, enumerare e vantare l’assoluta e incontestabile mascolinità degli uomini della Famiglia, in tutti i tempi e le condizioni sociali, senza giungere agli eccessi di dover difendere l’onore in duello, perché “noblesse oblige”…. Tutte le donne romagnole hanno sofferto nel tempo questa inevitabilità d’onore.

E venne il giorno del dolore. Oggi la chiamano depressione post-partum o bipolare è poco importante, è solo questione accademica; per chi la prova è una cosa molto seria: ci vanno di mezzo anche i bambini. La cucina era il regno delle donne; i maschi ci passavano solo di sfuggita o per mangiare. I bambini non sono così fini; così, vedendo la mamma triste e la zia Maria che era venuta per dare una mano, il nostro eroe decise di consolare la mamma, la strinse alle gambe e alla sottana con un abbraccio; ma lei lo scacciò in malo modo. Stupito e disarmato la zia lo accompagnò in camera. “La mamma non ci vuole più?”.“La mamma sta male – rispose la zia dolcemente - e l’ultima nata passò due anni a Corpolò con lei, che aggiunse un figlio ai tanti suoi.

Tante gioie, tanti dolori, il trasloco e lo spettro della povertà. Dio prova in ogni modo chi ama e non li lascia soli. Preceduti dal grande per motivi di studio, allontanati opportunamente dalla casa paterna, tutta la banda del Dottore sbarcò nella città sul mare, lungo l’Ausa in affitto, in attesa, sperando, di tempi migliori. “Dio chiude una porta e apre un portone” diceva l’Angelina e, icastica, “Bòta in tera e spera in Di”. Tirandosi su le maniche e cadendo come Gesù verso il Calvario, ebbe sempre da Lui dei Cirenei: vicini di casa, sconosciuti, parenti e amici… dotti professori e Colonnelli in pensione perfino Ceccaroni, il Sindaco potente. Dio non abbandona mai e si serve di tutti: Medici Provinciali e Presidente dell’Ordine, massoni e religiosi, suore, orfanelle come lei, vecchie bagnine, preti e nobili di cuore e di lignaggio, amici dei figli e poliziotti.

Una notte di tutte queste notti, girava per strada stranita ed era ormai tardi. Uscirono in auto il suo Mario e il ribelle a cercarla sul mare. La convinsero a salire per portarla a casa, ma a uno Stop fuggì dalla porta e sparì alla vista. Il Dottore gridò: “Angelina! Angelina!” Piangeva dai suoi occhi senza luce e il figlio capì: “Ma come la ama!” e fu certo.
Dicono che il matrimonio sia un sostenersi verso il Destino.
“Pensa a te stesso e ai bambini! Rinchiudila e rifatti una vita” I saggi e i sazi dicevano così.
“Io l’ho sposata e lei è la madre dei miei figli”
Si può, da nati nella bambagia e nel decoro, accettare fatiche e umiliazioni?
“Da ricco che era…” dice S. Paolo

Le preghiere dell’Angelina erano state accolte, le sue suppliche alla Madonna, la sua fiducia in Padre Pio, la sua debolissima tenacia coi figli e le “torture” alle bambine.
Non ci arrivava più, aveva speso tutto, da donna intelligente con le spalle fragili, … aveva dimenticato il più piccolo per strada una volta e l’avevano rintracciata a Carpi un’altra, col grande che andava sperduto senz’ombra d’amor e ne aveva ereditate la fragilità e l’intelligenza, dicevano, ma non ne era convinto.

Abbandonata da chi la doveva curare, ma non da Dio e dai Braganòun, chiuse gli occhi e fermò il cuore una mattina in fondo all’anno. Mentre tutti si preparavano a festeggiare il nuovo di lì a poco, la Madonna le chiese aiuto, che le desse una mano a preparare la Sua festa di Madre e in Lei di tutte le Madri.

L’Angelina ad Braganòun andò a servizio della Signora, che aveva tanto amato e cui, non sapendo più che pesci prendere, aveva affidato il figlio ribelle in attesa che venisse anche lui a darle una mano in quella casa che non ha mai rifiutato nessuno.

“Forse questi 15 giorni sono serviti, a lei per capire che le volevamo bene e a noi per capire che ci voleva bene” aveva detto la Regina delle Nevi, la morettina quasi marocchina, la figlia di cui era ospite ogni settimana alla fine della breve malattia mortale.

Contro ogni logica naturale, la prima che le andò dietro giovanissima fu l’ultima delle nipoti, quasi una non-nipote, la grazia di Dio che, dapprima non voluta, l’aspettava sulle scale ogni volta che veniva a casa sua dalla Rosi, le prendeva il bastone, le baciava la mano e l’accompagnava dentro.



“Siano liberate le anime prigioniere” (Claudel)


venerdì, maggio 10, 2019

La maestrina dal cappotto rosso


Che occhi belli! Che mani operose!
Dina dal cuore grande era rimasta vedova presto, troppo presto.
Ogni donna innamorata sogna di sposarsi, di avere tanti figli e di giungere a vedere i nipoti e a goderseli. Ogni donna vuole stare col marito, ogni donna che voglia bene.
Ogni donna odia la guerra, che porta via gli uomini e non li fa più tornare, per terra per cielo e per mare.
Il mare che serve ad unire persone lontane, così grande da ricordare l’infinito, in guerra divide, distrugge, separa. Il mare, poveretto, non si rende conto di questo. Se fosse per lui, non farebbe altro che portare vita, che rendere contenti i bambini sulla spiaggia con le conchiglie e i cavallucci marini.
Gli uomini partono in guerra, lasciando tutto, non per colpa loro né per volontà propria.
Di là del mare c’è l’Albania e oltre la Grecia, da conquistare.
Per cosa? Orgoglio? Potenza, Prestigio? Ricchezze?
Eugenio partì un bel giorno e non è più tornato. Non c’è solo il piombo che uccide o gli agguati del nemico. Il tifo, le malattie, dove non c’è vita, nei disagi, nelle fatiche, la fanno da padroni.
Che guaio la guerra, che cosa senza senso!
Di qua, su questa sponda, una bambina piccolissima aspetta con la sua mamma.
Orfana di guerra.
Il babbo che non ti ha mai visto, non ti vedrà mai più. Le sue braccia forti non ti stringeranno più né saprà mai che nome avranno i tuoi nipoti.
Una bambina. Carla non ha mai visto gli occhi del suo babbo, forse a specchio negli occhi della Dina, quegli occhi così aperti e così belli, talvolta severi, ma sempre cordiali, sinceri.
La Dina, è stata una gioia conoscerla, per tutti quelli che l’hanno incontrata.

I Braganoun, i Tonni, sono una grande antica famiglia, molto vasta e molto unita. Poveri e ricchi in dignità e solidali. Nessuno è mai stato abbandonato fra loro. La fede cristiana l’hanno presa sul serio, un dono che vale per loro e per tutti, nobili e contadini.
Eugenio Tonni non tornerà più.
Le sue due bambine lo vedranno dove tutto è chiaro e spiegato. Carla e la sua sorellina, nata e morta come succedeva mica tanti anni fa.
Si muore anche da piccoli.
Si vive da piccoli e si diventa grandi, col tempo e con la paglia, come le nespole.

Ragazzine, ragazze, maestrine, maestre e direttrici. Si va a scuola, si lavora, s’incontra un bel ragazzo e ci si fa spose. Mamme a propria volta. E sarte, perché la Dina era una sarta bravissima e faceva scuola a tante ragazze, figurarsi alla figlia!
“Galeotto fu l’ago e chi lo usò”. Quel ragazzotto capitato in casa per accompagnare una lavorante della Dina, si portò via in poco tempo, affascinato, la figlia-sartina.

Non c’è mica bisogno di essere laureati per insegnare. La propria arte e la passione bastano e avanzano, anche senza diplomi, mentre si educa alla vita e si trasmettono amore e onestà.

Tre figli e uno in più. Due maschi e due femmine. Belli e operosi. Arrivano i nipoti, fra tanti amici, che vivono di fede e di accoglienza, di sacrifici e di lavoro, costruttori di civiltà.
Il Gruppo famiglie e la Casa di Bagnolo e tanti nuovi amici e una nuova fraternità.
Una scuola, che piano piano cresce a diventare grande e conosciuta, stimata e osteggiata al tempo stesso, fra altri amici per una grandezza sempre più grande.

Carla, giovanissima, insegna alle Maestre Pie, poi nello Stato, poi, baby-pensionata grazie all’amante sindacalista (un amante legale, per carità, con tutti i crismi della Chiesa, quel bel ragazzo incontrato una volta) si dedica alla famiglia; ma “Charitas Domini urget nos” e Carla si getta nell’agone di una scuola nuova, maestra, direttrice, maestra–direttrice e forse anche bidella, sicuramente consolatrice e custode di queste piccole pesti chiamate a diventare grandi a loro volta. In tempo di pace, perché si combatte sempre, essendo la vita dell’uomo un servizio militare, per tutti maschi e femmine. “Militia est vita hominis”.
E finalmente la vera pensione, con le amate sigarette, il marito coetaneo, i figli, i nipoti…un po’ di pace…
Si usa dire che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto e la vecchia arte della mamma: questi bambini che crescono non sanno cucire e Carla torna “sartora”. Si può mai stare lontani dalla scuola, dal primo amore? Si può stare davvero in pantofole?

Eugenio riposa a Bari, le sue ossa e il suo nome, nel Sacrario dei Caduti d’Oltremare, monito di pace e di pietà per tutti; Dina dagli occhi belli li ha chiusi ormai da tempo e Carla si appresta a raggiungerli un giorno, quando Dio vorrà, a ritrovarli, a conoscere il babbo e a riconoscere la mamma e riabbracciarli con la sorellina.

80 è un numero piccolo, davvero minuscolo nel conto del tempo. 80 è appena ieri che la vita è cominciata, nella gratitudine e nel dolore, nella certezza di un destino buono, provato e riprovato negli anni, nei volti, nelle cose, nel cuore.

Ad multos annos, Carla!
Lunga vita alla bambina che non si è arresa mai!








lunedì, marzo 25, 2019

Tommy dell'altra parte


Una piccola scarpetta verde fu la prima cosa che apparve ai piedi della grande quercia di Gemmano, quella che si trova lungo il sentiero a valle del campo sportivo. Nemmeno gli anziani più anziani ricordano quando fu piantata o forse fu solo portata dal vento la ghianda, che le diede vita, caduta e rotolata da chissà dove. D’inverno affonda in un piccolo pantano, d’estate la terra è secca per quanto, sotto sotto, scorra un piccolo rivo d’acqua, che dal monte Gardo scende a valle attraversando, sotterraneo, il cimitero e viene alla luce, come polla nascosta nel bosco sulla pista abbandonata, poco sopra la chiesa di Farneto, distrutta dai cannoni inglesi alla caccia degli ultimi cecchini tedeschi.

Una scarpetta verde di una foggia strana sbucò, non vista, all’improvviso, in pieno giorno e, poco dopo, un’altra e due gambette semoventi, un paio di buffi calzoncini corti, una blusa color nespola, due mani, le spalle e infine un viso simpatico.
Con un’agile capriola la strana creatura si rivoltò testa-piedi e si mostrò ritta in tutta la sua altezza con la testa verso il cielo, come tutti gli abitanti di questo mondo, noi, siamo abituati a fare fin da quando impariamo a camminare. Anch’essa si mise a camminare così; ma si vedeva bene che non era molto capace, un po’ come gli astronauti quando vagolano nello spazio a 300 Km dalla Terra attaccati col tubo per non finire chissà dove. L’esserino non aveva nessun tubo e la volpe che gli passò di fianco non ebbe alcunareazione di stupore: ne aveva visti di bipedi umani!

Si guardò intorno, si aggirò per il bosco ed infine entrò in paese e anche lì nessuno ci fece caso: gli abitanti erano abituati a vedere i bambini, un bambino un po’ stranito in verità. Si stupiva di tutto e faceva strane domande in una lingua sconosciuta. “Un forestiero” pensavano “ma dove sono i suoi genitori?”
A dire il vero questo bambino forestiero aveva ormai 40 anni o meglio 327 glu, come li chiamavano loro ed era molto più che un astronauta, era un vero pioniere, una sorta di Magellano, tanto per capirci. Il suo mondo era dall’altra parte del mondo. Letteralmente dal mondo sottosopra.

Avete mai guardato un albero? Le querce sono grandi, forti, antiche e crescono lungo i corsi d’acqua o lì vicino; ma tutti gli alberi, tutti tutti, affondano le radici nella terra e innalzano i rami verso il cielo. Così li vediamo noi e li conosciamo fin da piccoli; ma…dall’altra parte del suolo, quali sono le radici e quali i rami? Noi li vediamo succhiare l’acqua da sotto e alzarsi verso il sole da sopra, ma…come li vedono quelli che abitano dall’altra parte? Il nostro sole detta gli anni, dall’altra parte ci sono i glu. L’acqua da noi scorre strisciando, dall’altra parte vola in alto, dove il croc (cielo) è scuro e solido, quello che noi vediamo luminoso e trasparente con un colorino azzurro che incanta ed un rosa così soffice all’inizio e alla fine del giorno per ricordarci che siamo maschi e femmine, grazie a Dio, per aiutarci a diventare grandi insieme.

Ecco Tommy veniva di lì, dal mondo in cui si cammina a testa in giù per noi e noi per loro, piedi contro piedi, come un mondo di specchio. Perché proprio ai piedi di un albero? Avrebbe potuto scavare un buco e arrivare più agilmente così. Perché l’idea gli era venuta proprio guardando i trunc (alberi), che lui amava tanto perché danno dei frutti dolcissimi (slurp). Dall’altra parte infatti sono le radici (cloc) che fanno frutti, mentre i rami con le foglie (grasp) vengono a succhiare quell’aria frizzantina e quei suoni dolcissimi che spandono gli uccelli e i bambini quando giocano, che danno quel che di “tiramisù” ai frutti dolcissimi di cui si parla.

Era un genio! Si era messo in testa di scoprire cosa ci fosse dall’altra parte del mondo e, per quanto lo prendessero per matto gli amici e i fratelli, non aveva esitato ad avventurarsi là dove nessuno mai aveva pensato di andare, perché… perché è sempre stato così: i cloc sono cloc e i grasp sono grasp. “Allora perché mi chiedo cosa c’è di là?” si diceva e domandava agli amici.

Era sceso lungo i cloc perché erano come una specie di scivolo naturale e dopo un po’ con naturalezza aveva toccato l’aria ritrovandosi finalmente … a testa in giù. Gli abitanti di là vanno a scuola come noi e come noi fanno ginnastica. La capriola dunque fu perfetta e gli permise di camminare come un umano di qua.

Ciò che vide a Gemmano fu un incanto, un altro mondo: una strana distesa azzurra occupava tutto lo spazio laggiù in fondo. Non conosceva il mare. Nel suo mondo ci sono bellissimi laghi cristallini, che, senza luce, loro avvertono solo come un senso di leggera felicità. Il mare lo chiamò lui la prima volta e lo chiamò “mare” perché aveva sentito alcuni vecchi appoggiati al muretto emettere questo strano suono. Le sue orecchie sentono bene i suoni perché i suoni viaggiano più forti e chiari sottoterra.
Fu la prima parola che imparò da noi. Ne fu felicissimo. Ecco a che cosa gli erano serviti quei lunghi anni e noiosi di studio del Frollanico antico, un po’ come succede a noi con il Greco e il Latino. Quel suono “strano” gli dava una gioia, come se tutta la sua fatica e la sua età fosse come quella distesa di un blu così carico e consolante con il senso di un oltre, di un destino. “Cosa c’è di là?” si sorprese a pensare.
Il sole lo scaldava come nemmeno tutto il magma del suo mondo faceva. Bello, giallo, dolce e tenace. Sembrava così lontano! E le colline, le valli, i paesi…che nome avranno?
I suoi occhi vedevano come i nostri, come i nostri erano fatti; ma, nel mondo senza luce, come si fa a vedere? Mistero! Non si può sapere tutto.

Nel suo mondo erano fragili come noi, invidiosi, gelosi, curiosi, irosi e perfino petalosi…esattamente come noi. Ma no! Petalosi sono solo i fiori come le margherite, che loro hanno simili, non proprio uguali uguali.

E Rimini a nord, Gabicce a destra, Riccione proprio davanti e la dolcissima San Clemente dov’era nato il favoliere tanti anni fa, ma Tommy ancora non lo conosceva, pur avendolo visto: da lui, senza saperlo e dal suo amico aveva imparato la prima parola del mondo di qua, quel “mare” così pieno di nostalgia nel suono e di desiderio.

Dopo un po’ di tempo, Tommy si allontanò dal balcone dove tutte quelle meraviglie gli si erano spalancate davanti e calmo calmo se ne tornò alla vecchia quercia lungo il sentiero. Si arrampicò (o si calò) lungo i cloc (radici) e tornò a casa felice.
Nessuno vide il suo arrivo, nessuno vide la sua partenza. Solo la vecchia quercia sa e solo il vecchio favoliere. 
Lui va e viene spesso per la stessa via, come tante nostre Missioni Apollo.

Guardate bene - vi svelo un segreto - nelle piante del parco o del giardino, in basso verso terra, in quelle lungo il fiume o sui fossi, a volte anche nei vasi di fiori che le mamme tengono sul davanzale delle finestre: ogni tanto, a sorpresa, sbucano delle scarpette di diversi colori. La via è stata aperta ed anche noi possiamo usarla. Da molti gurl (anni) i nostri amici “a rovescio” ci visitano discreti ed hanno imparato l’Italiano. 
E se vedete alcuni bambini girare un po’ straniti per le calli di Venezia o i vicoli di Napoli, niente paura, ricambiate il sorriso: anche a loro piace questo strano mondo, sulla crosta della palla blu, che gira, paziente, sotto la luna, amando al tempo stesso il loro. Così com’è.




mercoledì, febbraio 20, 2019

Uno scherzo da prete nero-arancio

Alcuni giorni fa è morto il Presidente Cesare Zangheri, per tutti "Rino".
Il funerale si è svolto nella Chiesa di S. Giovanni Battista ieri nel primo pomeriggio.
La chiesa era strapiena. Parenti, amici, giocatori, tifosi. 
C'era il Sindaco Gnassi, in fascia tricolore con due vigili in alta uniforme e gonfalone della città, la nostra Rimini.
C'ero anch'io.
Per nostalgia, dovere e gratitudine... e anche per chiedere perdono al Presidente Zangheri.
Nostalgia perché nel 1980 mi avevano accolto come massaggiatore della squadra e stavo molto bene con loro, sia i giocatori sia dirigenti, una vera e propria famiglia. Erano i tempi di Gualtiero Carli, vicepresidente, del Dr. Zucconi e di suo fratello Sergio, di Mansilla, Spica, Long, Romano, Carelli, Colabello, Orrizzi, Ceccaroli e tutti gli altri, un grandissimo team, di Nicky, l'autista del pullman con cui si andava in trasferta, che preparava anche i panini ed era la "mascotte" della squadra. 
Campioni d'Italia e d'Europa. 
Dovere perché Zangheri era un grande, non solo nello sport e nel lavoro, ma anche nella carità: ha costruito a sue spese un ospedale in Africa e ieri due suore dell'Istituto che gestisce quell'ospedale sono venute da Savona per ringraziare e rendere nota questa sua generosa attività.
Gratitudine perché mi avevano accolto bene e mi era stato perfino rinnovato l'incarico per il 1981.
Ed ecco la richiesta di perdono, che non ho mai avuto il coraggio di fargli in vita.

Mi ero invaghito di una ragazza polacca, una "blondina" o "blondinka" come si dice da quelle parti, che avevo conosciuto in Italia.
Le avevo scritto, manifestata la mia passione e lei mi aveva risposto invitandomi  ad andare a trovarla a Varsavia, dove lavorava come infermiera.
Preparate le carte, rinnovato il passaporto, ottenuta in prestito la Golf Diesel del mio amico Bubi, contattato gli amici con cui viaggiare fino a Cracovia, racimolato soldi e regali, ero pronto a partire.
Solo che di lì ad una settimana sarebbe iniziato il Campionato di Baseball.
Che fare? 
Capperi! 
Mi avevano rinnovato la fiducia come massaggiatore della Derbigum, ero contento di stare con loro, mi avevano regalato la pallina della vittoria con tutte le loro firme, ero stato anche citato con parole lusinghiere sullo "STADIO" e paragonato al notissimo massaggiatore Colombara della Nazionale Italiana di Baseball...
Come si dice? 
"Tira più un pelo di f... che un paio di buoi"
Ricordo ancora benissimo, come fosse adesso.
Mi recai da Gualtiero, nel suo negozio di sport in via Coletti, senza dire niente agli amici, senza chiedere consiglio, da anarchico...o da pataca
Mi accolse con un sorriso. 
Gli dissi: "Gualtiero, non ci sono quest'anno con la squadra; vado in Polonia".
Mi guardò triste e mi disse: "Così ci lasci in braghe di tela!"
A una settimana dall'inizio del Campionato...
Se fosse ancora vivo, andrei in ginocchio a chiedergli scusa". 
Lo vidi allora per l'ultima volta.

Andai in Polonia. Era il tempo di Solidarnosc e del possibile e temuto intervento sovietico, poco prima del "colpo di stato" del Generale Jaruzelski. 
La polonia è bellissima e mi ha lasciato un segno profondo nel cuore; ma, naturalmente, con la ragazza finì malissimo: aveva già il fidanzato e insomma, mi aveva fatto andare lassù per un paio di jeans "per un suo collega" mi aveva scritto. E gliene avevo portati due.

Oltre il danno la beffa.
Io non sono molto pronto a capire le cose ad onta della mia supposta fama di "genio" da parte degli amici. In questo senso mi sento molto affine ai bambini Down, che pure amo alla follia.

Niente morosa e niente campionato.
Al ritorno, con le pive nel sacco, l'allenatore in seconda della Derbigum mi consigliò di parlare con Zangheri, offrire le mie scuse e chiedergli di riaccogliermi come massaggiatore. Non ne ebbi mai il coraggio. Andai un giorno al campo, lo vidi nel bar deciso a parlargli. Avanzai di qualche passo, stava scherzando con una persona, mi fermai indeciso, poi mi voltai e me ne andai. Conoscevo il suo carattere e temevo la sua reazione. Lo vidi lì per l'ultima volta.

Ieri non potevo mancare, non volevo mancare. 
Al termine della Messa mi sono avvicinato di soppiatto alla bara. 
L'ho baciata, chiedendogli mentalmente perdono.
Poi sono andato al campo, insieme ai giocatori e ai tifosi, alla famiglia e ai ragazzini della nuova leva.
Ho pregato, come allora, che il Baseball non finisca a Rimini.
Ceccaroli mi ha abbracciato e mi ha chiesto se facessi ancora il massaggiatore.
Gli ho detto di no, che non posso più. Ho ritrovato Mike, Dodo, Eddy, Mulazzani, Gibo, Sergio, Beppe. Rick non c'è più da due anni.
Sono entrato ancora una volta nel campo e sono sceso ancora nel "Dugout"

Grazie, Signore Presidente Zangheri.
Pace fatta!
Ad maiora. 
Dicono che da "Lassù" il baseball si gode in modo particolare.
Lunga vita alla famiglia Zangheri! Lunga vita al Baseball Riminese!