giovedì, settembre 09, 2010

Il bambino che vide il suo Angelo Custode

C’è un paese a due passi dal mare, alto e ben nascosto, visibile e isolato insieme, un paese stupendo dove vivono uomini normali, vecchi, bambini, donne,ragazzi e ragazze, come dappertutto, unico e speciale al tempo stesso. E’ un paese sconosciuto ai più, anche ai vicini. Il paese si svolge fra due cime, quello vecchio nella prima, quello nuovo sui fianchi della seconda e il borgo in mezzo.
Le mura, a mo’ di castello, racchiudono la chiesa, il forno, il comune, il bar, la farmacia ed un piccolo ristorante che da gusto al palato e alla vista.
Gianluigi abitava e abita di là, fuori e oltre il borgo, in una casa nuova con qualche appartamento e tanta aria buona. Occhi belli, spalancati e aperti a tutto. Lo sguardo sembra perso eppure acuto. Non sa leggere, non sa scrivere, si muove lentamente e non corre dietro alle ragazzine. Lo prendono in giro e lo trascurano i ragazzini della sua età. Non gareggia, non si mette in mostra. Parla lento, a scatti, monotono; ma ride, è bello. Sembra Lucio Battisti. Prega. Quanto prega! A scuola? E’ cresciuto da emigrato, all’estero. Di che scuola ha bisogno?
Una vecchia maestra tanto giovane nel cuore, Carolina, se l’è preso a cuore. Leggere e scrivere almeno, semmai per fare la firma. Com’è duro imparare! Che fatica insegnare! Ogni lettera, ogni parola è una  lenta  conquista. Ma si fa. Piano piano. Ogni giorno. Con costanza. Passa il tempo, passano le ore, nella saletta della canonica del piccolo paese in cima alla collina. Prima e dopo una preghiera. Gianluigi vuole così. Carolina lo segue e lo accontenta.
“Sai, Carolina, vorrei tanto vedere il mio Angelo Custode!”
“Gli angeli non si possono vedere, Gianluigi: sono spiriti” Lo corregge compatendolo la buona  Carolina.
Tante lezioni, tanta fatica e pochi risultati. Quel bambino dagli occhi chiari e dolci che splendono, pieno di ricci nei capelli non andrà mai all’Università e nemmeno alle Medie. Forse la firma e non di più.
Il piccolo corridoio conduce alla sagrestia e poi in chiesa. La solita preghiera davanti all’altare, poi si torna a casa. La lezione è finita. La chiesa è vuota. Il paese è piccolo e tutti lavorano. Il prete non c’è: è a scuola, nella valle. Ed ecco…
“Gianluigi, cosa c’è?”
Fermo, con gli occhi spalancati ed un sorriso leggero, Gianluigi sta fissando sopra la porta nella parete sotto il soffitto.
“Carolina, guarda! Il mio Angelo Custode!”
Un brivido corre nella schiena a Carolina. Stupisce: c’è solo il muro bianco di calce. In silenzio escono dalla casa. Gianluigi non è un visionario. Il prete ascolta Carolina e tace. Fu tanto tempo fa. Gianluigi è un giovane uomo adesso e prega sempre e fa pregare, con gli occhi ed i ricci di allora.
Il prete non è più lì. E’ stato mandato in un altro paese e poi in città; ma ogni tanto, per strada o in auto, dagli amici o in Curia gli squilla il telefono: “Prego sempre per  te. Come stai? Volevo sentirti. Penso sempre a te. Come va?” Come una filastrocca saputa e sempre nuova. E’ un prete famoso, fa molta carità; lo cercano tutti, i bambini non si staccano da lui, anche il Vescovo lo stima, ha molti amici e tanta fede.
Un povero bambino analfabeta, un giovane uomo sconosciuto, un essere inutile per tanti lo sostiene. Lo cerca, lo saluta e non chiede altro. Ha gli occhi che brillano Gianluigi e ricci ancora al loro posto. Parla sempre così, lentamente e non sa fare discussioni, non ha mai imparato a scrivere, scarabocchia il suo nome. Ha visto il suo Angelo Custode e tanto basta. Prega e sostiene il mondo. Meglio di Obama e dell’ONU. Sta portando alla santità un povero prete  e chissà quanti altri.
C’è un piccolo paese a due passi dal mare…

Il viaggio di Jaki

Jaki si era svegliato nel cuore della notte. Tutto era buio. Le stelle splendevano in cielo. La luna filtrava fra le serrande e non c’erano suoni. Solo una macchina passò veloce sulla strada.
Jaki si alzò, nel suo pigiamino bianco con gli elefantini e la collanina col sole che amava tanto. Era l’ultimo regalo della mamma per il suo compleanno. Aveva sete. Bevve. Quello strano chiarore era affascinante. Uscì in giardino e restò incantato. La luna splendeva come non mai, una piccola falce di luna, a forma di C, voltata in alto, in mezzo ad un cielo nero zeppo di stelle. Il giardino era pieno di piante: pioppi, pini, un glicine, qualche roseto, due albicocchi, quattro tigli. Una siepe di mortella lo circondava tutto. La piccola casetta di Tobi, il cagnolino dalla coda corta era in mezzo ad esso, nell’angolo del prato, dietro il fico dolcissimo.
Jaki, assonnato, girava nel cortile. Non era freddo. Fu lì che vide, notandolo per la prima volta, il vecchio platano, carico di anni e povero di foglie. Al chiaro di luna sembrava una fionda! Il tronco si alzava e a un certo punto si apriva in due grossi rami a mo’ di forcella. La luna brillava in cielo lassù, proprio dietro di esso.
Un lampo, un’idea, la fionda, la luna… Mancavano solo gli elastici!
Corse subito, urlando di gioia in silenzio, nel capanno degli attrezzi del babbo. Trovò ciò che cercava: due vecchie camere d’aria di una bicicletta bucata e qualche elastico robusto. Le fissò ben bene, legandole fra loro. Si mise in mezzo e camminò pian piano all’indietro, fissando il suo obiettivo. Quando furono ben tese, si lasciò andare e… meraviglia! Volò verso la luna, come un sasso scagliato verso il bersaglio.
Volava dritto, nel silenzio della notte. Nessun aeroplano di passaggio si frappose. Per poco non colpì un gufo notturno che tornava pigramente al suo nido dopo una serata passata con gli amici. Passò in mezzo ad uno stormo di anatre migranti, che non protestarono e presto fu solo fra le stelle.
La casa, poi la città, poi il mare e tutta la Terra via via rimpicciolirono. Non sentiva freddo né paura. Il suo pigiamino lo proteggeva e la luna lo attirava. Ecco, la luna era sempre più grande. Afferrò al volo il corno più basso e si fermò. Si accomodò a sedere come su una poltrona e si riposò. Respirava bene. Solo il cuore batteva un po’ più forte per l’emozione. Chi ha mai detto che sulla luna non c’è aria? Tutte fantasie di chi non c’è mai stato. Che gioia! Che spasso! Seduto sulla luna, guardava le stelle, molto più grandi e vicine. Abitavano nel cielo anche loro! Provò ad afferrarne una; ma scottava un po’. In fondo erano fatte di fuoco.
D’un tratto un’ombra. Qualcosa si avvicinava. Una strana cosa, un po’ più grande di lui. Stropicciò gli occhi e vide… la Marty, la sua sorella maggiore. Lo aveva seguito; ma ecco, più piccolo, in arrivo, comparve anche Mario. Capperi, però! Anche sulla luna ti seguono i fratelli! Provò a lamentarsi, come se gli avessero rubato qualcosa; poi si strinse un po’ e fece loro posto.
Mario, come il solito, volle mettersi nel posto più bello, vicino alla punta, cavalcioni di essa. La Marty, nella sua vestaglietta rosa a fiorellini blu, aveva visto tutto ed era andata a chiamare Mario. Aveva trovato l’elastico ed era partita per recuperare Jaki, non senza essersi raccomandata con Mario di non muoversi e di aspettarli. Mario, disubbidiente, le era andato dietro nello stesso modo insieme alla sua tartaruga ninja preferita ben stretta nella mano. E adesso, tutti e tre, erano sulla luna, di nascosto dal babbo e dalla mamma.
Le gambe penzoloni guardavano in giù. La Terra era blu, con qualche nuvoletta e una casetta vicino a Viggiù. Nel cielo più nero le stelle eran tante, dorate, d’argento, qualcuna viaggiante. Sul bordo, nel mare due delfini innamorati saltavano sulle onde guardandosi negli occhi. Una macchia di neve, un’intera foresta e fiumi che pigri correvan qua e là. Che bello! “Restiamo per sempre quassù!” pensarono insieme.
Il tempo passava. La falce di luna si era fatta sempre più piccola e sottile. I tre fratellini stavano sempre più stretti e, quando la luna scomparve del tutto, caddero insieme, mano nella mano, verso la Terra. Veloci veloci e sempre di più, vedevano la Terra ingrandirsi, il mare, le piante. “Aiuto! Presto ci schianteremo” urlò la Marty.
“Nessuna paura” rispose Jaki. Si tolse la giacca del pigiama, l’afferrò per le maniche e – urca peppa! – ne fece un paracadute. Glielo aveva insegnato Marco, l’amico di Bubi, che aveva fatto il soldato nei parà.
La Marty afferrò il bordo della vestaglietta e allargò le mani. Sembrava una campana. Disse a Mario: “Prendi i miei piedi e tieniti forte”.
Sani e salvi atterrarono dolcemente nel giardino di casa, sull’erba tenera e fresca di rugiada. Una coccinella che passava di lì salì lentamente sulla mano di Jaki. Rossa con otto puntini neri sulla schiena se ne stava a guardare questi piccoli animali caduti dal cielo. “Come faranno a volare senza ali” si chiese in cuore, ma subito passò a esplorare le dita, senza dire nulla.
Entrarono in casa, si affacciarono alla camera del babbo e della mamma. Dormivano. Il babbo russava un poco e la mamma Lucia aveva la testa appoggiata sulla spalla di lui.
“Zitti! – sussurrò la Marty – torniamo a letto. Non si sono accorti di niente”
“Ma io ho sete” disse piano Jaki.
“Va’ in cucina e fa’ silenzio”
Mario era già nel letto; la Marty stava sornacchiando quando Jaki tornò. Si stese, tirò su il lenzuolo, poggiò la testa sul cuscino, chiuse gli occhi e…
“Bimbi, sveglia, è ora! Oggi si torna a scuola! Mario, dai! Marty, aiutalo! Jaki, JAKI! Andrea, dammi una mano”
“Mamma, lo sai? Sono stato sulla luna. Stanotte, quando dormivate.” disse Jaki mentre la mamma preparava il caffelatte.
“Sì, sì, Jaki, ci credo, ma adesso fa’ presto; è pronta la cartella?
“Babbo, sulla luna si respira”
“Certo e si nuota anche in piscina, vero?”
“Ma babbo, è vero! Chiedi alla Marty”
“Sì, sì e dimmi, come sono fatte le donne lunatiche?” e afferrò, ridendo, le chiavi della macchina, che lo aspettava, paziente, in garage.
Mario non disse nulla. I tre fratellini si guardarono in silenzio sconsolati. Non avevano sognato, oppure…sì?!
Jaki afferrò la collanina che portava sempre al collo, con il sole d’argento finto che pendeva. Lo guardò. La coccinella era lì e lo fissava con i suoi occhi piccoli piccoli. Lei aveva sentito tutto. Aveva visto tutto. Lei sapeva. Era testimone. Li aveva visti atterrare, aveva sentito i loro commenti entusiasti. Avrebbe potuto parlare, affermare che era vero, che tutto era vero.
Ma taceva.
Perché era una coccinella tedesca, in vacanza nella piccola città di mare e non parlava bene l’italiano.

Il Pidru salvato

"Fu vera gloria? Ai posteri l'ardua sentenza"
Infarto, collasso, ischemia?
Un sasso sul sentiero, uno zaino sotto la testa, un uomo sdraiato a terra, la mano sul collo.
Una forra stretta ed un torrente. In fondo ed in cima una cascata ed un laghetto.
Acqua fredda. Aria calda. È quasi mezzodì.
Una donna, è Laura, chiama il 118.
Arriva l'elicottero. Forse siamo esagerati, forse no: è l'inizio di una bella avventura.
Morirà Pidru?
Magari - pensa uno sciacallo di passaggio.
Lui non è dell'idea: ci tiene alla pelle. Tutto compreso nel suo ruolo di persona in difficoltà, forse ripensa a Foe.
Due grandi atleti, uno accasciato sul campo, uno sul sentiero, in gita. Semplice, tranquilla, amicale.
Una zolla. Un sasso.
All'improvviso un frastuono. Ecco arriva!
L'elicottero sale da valle, volteggia, scompare, risale, si ferma. Si cala.
Pian piano. Giù giù.
Fermo, immobile, si apre. Un uomo si cala, atterra. Un altro lo segue. Stop.
Rumore e vento. Le pale spazzano l'aria, sollevano spruzzi, sparano foglie e rametti.
Lontani guardiamo, gli occhi coperti.
Si ferma, si alza, si leva, s'innalza l'alata libellula riparte chiassosa.
Silenzio.
Due esseri arancioni s'avvicinano a Pidru.
"Qua il braccio". Gli aprono le vene.
Tinco come un sardone di quattro giorni, il nostro amico stupito si guarda i buchi negli arti.
Uno, niente vena, due, s'è rotta, tre "sta' calmo" riprova. Il sangue che sgorga. "La flebo, coraggio!"
Che lago di rosso! "Sto bene, sto bene! Non voglio volare!"
"Qua il polso, sta' buono". È fatta, è fatta!
Il liquido inonda le vene esauste. L'eroe sta tremando. Ha freddo? È fifa?
Delira? Esorta in dialetto : "Lasciatemi in pace!"
Son gli ultimi fiati di dolce sua vita?
"O Titolo buono, soccorrimi ancora! Non voglio lasciar, solo, questa dimora!"
"Non posso salir sull'alato destriero. Sta bon. Nu bazila. T'an ved chl'è fìnida?"
Un medico pio, papa di Bernardo, un altro arancione che vien da Belluno, il Titolo buono che pur l'ha soccorso, un saggio infermiere capace ed accorto, amici d'intorno...che cosa di più?
Uno sciacallo di passaggio azzarda: "Anch'io un infarto! Io voglio volare!"
Barella distesa, aperta, imbottita accoglie il corpo del nostro atleta.
"Allunga le gambe, sta' calmo, relax!"
"Nu strinz, t'am fé mel. T'an è na pasteina. Mel d'eria. Mel d'eria!"
"Apri la bocca, alza la lingua, due gocce di calma".
Il buon infermiere telefona un cali. Di nuovo rintrona tempesta e rumore. Arriva, rispunta.
Si cala più basso. Sta fermo, impettito. Le pale si agitano. Il vento rispazza la stretta
valletta. La forra riempie di foglie e rumor. È basso. Sì basso!
Il medico sale, lo zaino attaccato. Risale. Rientra.
E cala di nuovo il forte verricello.
Barella è legata. Aggancia infermiere l'alato eroe di tanta giornata.
E Pidru? Si tace. E' morto? L'infarto?
"S'un mor adess un mor piò" si pensa fra amici.
Va su piano piano. Libellula immobile.
Si ferma. Si gira. Risale. Riprende. E Pidru di fuori, attaccato alla barra.
Su presto. Voliamo!
Un uomo è di fuori! Son due!
Le cime s'abbassano sotto.
È sopra, riparte, s'invola. È a valle!

Che grande avventura! Ci aspetta Belluno! Che opera d'arte! Che grande attor!
Che attori! Che eroe! Che grande giornata!
Valeva la pena.
"Anch'io un infarto!" ripensa il sciacallo.

Un'altra medaglia al valore civile!
A chi? Ai salvatori? Ma no! All'amico.
A Pidru. A chi? Altrimenti?
E Matrix? Chi è?
J.R.? E chi sono?
Un film incantato. In prima visione.
Biglietto? Gratuito!
A beautiful mind? O no, it is better. A beautiful show!

Or come si disse da Manlio e dai più: che bene finì è ben quel che fu.

Cecchino

E’ come se la Madonna ti pulisse il sedere.
E’ come un bambino di quattro anni, che se l’è fatta addosso. La cacca.
Tutti i calzoni sporchi, la puzza, i calzoni tirolesi, che il babbo ti aveva regalato di ritorno dalle vacanze in montagna.
Con la stella alpina sul davanti e le bretelline di cuoio.
Sei pieno di vergogna , piangendo, col dolore di avere sporcato tutto…
E la mamma ti prende, ti toglie i pantaloncini, e le mutande e sorride.
Ti consola.
Ti prende su e ti mette sotto la cannella dell’acqua, con il sedere nudo e ti lava, facendo le smorfie con il naso e sporcandosi le mani.
Così, proprio così fa la Madonna quando rifà in te l’immagine del suo figlio che avevi smarrito. Non con la bacchetta magica. Puff! E tutto è a posto. No.
Come la tua mamma, si sporca le mani e piano piano ripulisce tutto.
Mette le mutande e i calzoni nel catino, poi prende il borotalco e ti asciuga tutto. E ti parla e ti consola.
Ride contenta.
Ti ha profumato tutto e ti bacia anche il sedere.
Ti mette addosso i calzoni di lanina verde, con le bretelle verdi ed i bottoni davanti per tenerli su.
Poi ti dà un pezzo di pane. Il pane che hai sempre sgranocchiato, quando camminavi lungo la ferrovia che dalla grande città sul mare portava a Mercatino. Lungo il fiume che ti ha sentito cominciare ad esistere.

Caro Cecchino, è proprio come se la Madonna ti pulisse il sedere e te lo baciasse.
Il sedere.
Per giunta!

Perché sotto terra (La vera storia dei chicchi curiosi)

“Perché i pesciolini stanno nel mare?” chiede Filippo al nonno. Stanno mano nella mano sulla spiaggia, piena di onde asciutte.
- Perché non hanno le zampe per camminare!- risponde il vecchio
- Perché non cresce il grano nella sabbia?
- Beh. Perché non può conoscere i lombrichi!
Quando ero bambino – comincia il nonno…
Passa l’estate , viene l’autunno. Andavo nel campo ed il babbo rovesciava la terra, bella, grassa.
Poi buttava il grano.
“Bota in tera e spera in Di’” diceva la nonna.
Il nonno del mio nonno del mio nonno ava sempre fatto così. La nona della nonna della nonna aveva sempre detto così.
“Butta il seme in terra e spera in Dio”
E i chicchi vanno giù sotto terra.
Chi rimanefuori, i passerotti se lo mangiano e…ammm, nella pancia.
È buio sotto terra, un po’ freddo.
Un lombrico viaggiatore, lungo e nudo come un verme, lo vede, lo scruta, gl gira attorno e lo saluta “Benvenuto!”
- Aiuto! Sono solo!
- Sta’ calmo! Non tremare! Apri gli occhi! Non vedi quanti siete?!
Un po’ a tastoni, un po’ dilatando le pupille riconosce i suoi amici, che erano nel sacco con lui: il chicco Pierino, il chico Gianni, la chicca mariuccia, la Luigina, il chicco Ugo, quello un po’ ciccione…e tutti quanti.
- Che paura! Pensavo di essermi perso.
- Che paura anche noi! Chissà perché ci hanno buttato qui?
Una vecchia talpa di passaggio guardandoli bofonchia: “Bah, questi stranieri! Cosa fanno nella mia zona?”
Una coccinella che si era rintanata per passare l’inverno si offrì di spiegare loro le regole per stare sotto terra.

- Oh! Sotto terra c’è l’acqua corrente! Come nelle case dei bambini!
Il cielo apre i rubinetti e giù…piccoli rivoli d’acqua corrono e si infilano fra le zolle.
- Non si muore di sete qui!
Cala il freddo, scende la neve. Fuori fa freddo. Viene l’inverno.
Sotto terra è caldo.
- Oh! Come il termo che c’è nelle case dei bambini! Come si sta bene!

I piccoli semi amici sentono un formicolio…Sono formiche di passaggio? Ma no! Stanno crescendo.
- Mi sento un po’ strano – dice il chicco Giannino
- Anch’io – gli fa eco la chicca Mariuccia
- Sei un po’ gonfio!
- Anche tu
- Anche tu
- Anch’io
- Che bella crestina bianca, Luigina!
- Che ciuffettino simpatico, Ugo!
- Oddio, cresco, mi allungo!
- Buono, buoni! State calmi! – li consola la formica ballerina – arriva primavera.
- Aaah!
Bucano la terra, tutti insieme, chi più su chi più giù.
Il campo è tutto verde.
- Che bello! Siamo fuori! Siamo fuori!
- C’è il sole!
- Quanti siamo…!
Stupore. Meraviglia. Credevano di morire, invece…
Più su…più in alto…le spighe…i chicchi nuovi…
- Occhio alle rondini! Volano basso e filano come Schumacher!
- Attenti ai passerotti! Ti danno certe beccate!
- Che caldo, mi viene da sudare!
- Che bello stare insieme!
- Guarda i papaveri!
- Un campo rosso e oro – commenta un asinello di passaggio.
- State buoni! Non andate là in mezzo! – grida il nonno ai bambini
- Ma che bello!
- State buoni! Se no si pesta tutto!
Ogni chicco adesso è una spiga. Quante spighe! Quanti chicchi! Tutti belli, tutti tondi, biondi come l’oro. È oro! Il vero oro!
Il lombrico li guarda e ne gode: “Li ho conosciuti da piccoli. Guarda adesso!”
La vecchia talpa bofonchia: “Però questi stranieri!”
Tre grilli saltellano giocando qua e là.
Le cicale si mettono a cantare.
Adesso viene il bello. Taglia, lega, metti insieme.
- Oddio! Dove siamo?!
- Pierino! Giannino! Mariuccia!
- Siamo qui!
- Mi schiacciano!
- Anche me!
- Anche me!
- Ma che bel vestito bianco!
- Ma sembra neve!
- Adesso siamo come neve! Fiocchi di neve!
- No, siete farina – li avvisa una lucertola dal muro – Siete farina e siete dolci!

Ancora acqua, ancora caldo. Non c’è più la terra.
È pane.

Le mamme dei bimbi dell’asilo e le maestre preparano i panini da mangiare. Che buoni!
- Pierino, Giannino, Mariuccia…dove siete?!
- Siamo qui, non vedi?!
I bimbi gridano di gioia. Fanno un baccano…!
Siamo qui. Siamo vivi! Guarda come sono felici!

Jonathan

Tutto successe proprio così.
Una nave, una bellissima nave tutta parata a festa, con le bandiere di tutti i colori che correvano da poppa a prua, con le luci accese luminosissime, era ancorata nel porto di Valparaiso. Il nome della baia dice tutto da solo.
Il capitano della nave con la sua divisa bianca ed i bottoni d'oro stava dritto sul ponte, vicino alla cabina di pilotaggio, e guardava contento i passeggeri che salivano, eleganti, festosi, belli e sorridenti.
Alle 9 in punto la nave salpò, uscì dal porto salutata dalla sirena del faro e ricambiò il saluto.
Ne doveva fare di strada!
All'isola di Pasqua l'aspettavano per Natale, che come tutti sanno cade d'estate, mentre a Napoli cade d'inverno. Cade… non cade… come dire… beh, insomma quando da noi nel presepio c'è la neve, là invece c'è il sole.
Comunque…dopo Pasqua (l'isola) a Capodanno doveva arrivare a Papeete, poi bordeggiando bordeggiando era attesa per Pasqua a Perth. Tutto l'inverno, vale a dire tutta l'estate, avrebbe navigato nei mari del Sud.

Jonathan era salito con i suoi genitori. Piccolo piccolo camminava appena. Tutto il giorno giocava sul ponte della nave ed anche sotto il ponte, nella sala dei giochi.
Tutti ridevano, erano contenti.
Un vecchio delfino accompagnava la nave saltando di qua e di là, passando sotto la prua e sbucando ora a destra ora a sinistra della nave. Altri due delfini, giovani, la seguivano da lontano a proravia.
Tre gabbiani avevano seguito la nave per un giorno intero, poi erano tornati a riva.
Una tartaruga sbucò all'improvviso sul lato destro della nave un giorno di calma piatta. Si vedeva la sua corazza a pelo d'acqua.
Sole e caldo. Un venticello leggero accompagnò la nave per lunghi giorni.
Jonathan guardava ogni cosa stupito e contento.

Poi, un giorno, cominciò una nuvoletta, piccola, bianca.
Poi furono due, tre, quattro, poi le nuvole nere, il vento, la pioggia. Il mare si alzò, le onde diventarono grandi, molto grandi. E fu tempesta.
Fulmini, lampi. Sempre più vento. Tutti ebbero paura.
Il capitano tremava. Mise i motori al minimo e la nave fu preda del mare. La sballottò di qua, di là. Le passava sopra, l'alzava verso il cielo.
Non si capiva più niente. Non si vedeva più niente.
Il mare stava al posto del cielo e il cielo al posto del mare. I marinai chiamavano la Vergine delle Ande, le montagne sopra Valparaiso.
Il capitano in piedi al timone cercava di tenere dritta la nave.
Niente più stelle sopra la testa. Niente più sole. Buio e tempesta.
Dove finì la nave? Nessuno lo sa. Anche i satelliti non la trovavano più.
Giorni e giorni così, senza tregua, senza mangiare, perché veniva il vomito.

Una montagna improvvisa, un urto. E la nave si piegò.
Jonathan dormiva.
Il capitano lanciò il SOS. Poi tutto tacque.
In acqua solo relitti, e pezzi di barca qua e là.
Solo gli angeli custodi avevano visto e sapevano dove erano finiti i passeggeri: loro parlano ogni giorno con Dio e sanno tutto.
Jonathan si svegliò nell'acqua, con un salvagente addosso. Che freddo!
Il babbo? La mamma? E pianse. Piangeva, piangeva.
Neppure l'angelo custode riuscì a calmarlo. Pianse tutto il giorno. Poi si addormentò.

Una nave di passaggio lo vide, la mattina dopo. Aveva sentito il SOS. Era corsa a gran velocità. Altre navi erano corse. In mare, si sa, siamo tutti fratelli. Molti naufraghi erano stati raccolti. Anche il capitano.
I marinai tirarono su Jonathan con un uncino. Lo presero per la collottola, bagnato come un pulcino, fradicio come un pesce; ma era vivo.
Gli fecero una gran festa, lo coccolarono, gli diedero da mangiare, lo rivestirono tutto, un vecchio marinaio gli diede le sue mutande, pulite.
Jonathan dormì nella cabina del capitano, nel letto del capitano e fece la pipì nel letto del capitano. Bella riconoscenza!
Una mamma triste passava ogni giorno dal ponte di comando e sbirciava da un oblò questo bambino bellissimo con sette lentiggini sul viso, cinque a destra e due a sinistra.
Chissà perché era triste? E' un segreto. Solo il suo angelo custode, che parla ogni giorno con Dio, lo sa. E' un segreto suo e nessuno può saperlo.
Guardava Jonathan e sorrideva, lo guardava e piangeva.
Jonathan era rimasto solo. L'infermiera di bordo, una bellissima ragazza bionda con gli occhi profondi come il mare, gli faceva ogni giorno i massaggi. Le sue gambine nel mare erano diventate dure ed i piedi si erano piegati. Lo avevano ripescato molto a sud della Nuova Zelanda. Il freddo sofferto glieli aveva curvati tutti. Per questo il dottore aveva chiesto all'infermiera di prendersi un po' cura di lui.

Un bel giorno sbarcarono a Sidney fra canti di sirene.
E tutti tornarono a casa, salutando il capitano.
Jonathan li guardava, appoggiato al parapetto.
Chissà se il capitano l'avrebbe portato a casa con sé?
Ma il capitano scese, salutò i marinai, baciò la moglie che l'aspettava sulla banchina e se n'andò. Anche il capitano salvato scese dalla nave, salutò tutti, prese un taxi e si diresse verso l'Opera House.
Chissà se un marinaio lo avrebbe portato a casa sua? O l'infermiera così carina? O il dottore?
Tutti scesero e Jonathan era lì a guardarli tornare a casa.
Lui una casa non l'aveva più. Anche le gambe non lo tenevano mica tanto su.
Poi, una signora, la mamma triste, tornò indietro, seguita dal suo marito, un uomo forte, con delle mani grandi grandi ed un cuore ancora più grande. Lo prese in braccio senza parlare, lo strinse forte senza dire nulla, lo mise sulle spalle dell'uomo grande e andò a casa.
Jonathan imparò a chiamarla mamma. E lei, senza dire niente, imparò a non essere più triste.

Tutto successe così. Come mai, è un mistero che solo gli angeli custodi conoscono. Loro parlano ogni giorno con Dio.

Un vecchio mendicante sta seduto fuori dell'Ospedale, a sinistra della porta. Voleva diventare dottore, ma non ha potuto. Così sta lì, fuori, e guarda le persone che entrano e che escono e stende la mano per chiedere un aiuto.
Quando Jonathan entra per curarsi i piedini e le gambe, lo vede e lo saluta.
Il vecchio ama molto i bambini. Voleva averne tanti, essere babbo, andare in Africa a curarli, come dottore. Ma il suo angelo custode gli aveva detto in un orecchio che Gesù non voleva così, che voleva tenerlo lì, alla porta dell'Ospedale e gli aveva promesso in cambio che lui sarebbe stato come il babbo di tutti i bambini che passavano di lì. E il vecchio era rimasto lì e coi suoi occhi lucidi e un po' appannati guardava tutti i bambini che passavano di lì con le loro mamme bellissime (le mamme, come tutti sanno, in compagnia dei loro bambini sono bellissime) e zitto, allungava la mano per chiedere. E le mamme, che capiscono quasi come gli angeli custodi, lasciavano qualche volta che lui mettesse loro la mano sulla testa e li benedicesse in silenzio.

La prima volta che vide Jonathan gli disse: "Tu un giorno sarai un grande calciatore". E così fu.
Passarono gli anni e Jonathan divenne ogni giorno più forte e più felice. Le sue gambe dure ed i suoi piedi storti diventarono diritti e robusti. Giocava a pallone così bene che prima Zamorano, poi Maradona, poi Pelè, il magico Pelè, o Rey, vennero a vederlo giocare.
Infine Trapattoni, il CT della Nazionale tre volte campione del mondo, lo mandò a chiamare e lo mise in squadra.
Nel Campionato del Mondo del 2010, a Rio de Janeiro, nella finale contro il Brasile, fu proprio Jonathan a segnare il golden goal che portò il titolo all'Italia. La Germania arrivò quarta, dietro il Cameroun. Dell'Inghilterra è meglio non parlare.

Andò proprio così.
Quel giorno fuori del glorioso Maracanà, il vecchio mendicante aspettò Jonathan, che uscì dagli spogliatoi circondato dai giornalisti di tutto il mondo.
Jonathan lo vide, tirò fuori della sua sacca una piadina col prosciutto e gliela diede.
"L'ho fatta io - gli disse - A Natale ti aspetto a casa mia".
"Sii felice" lo benedisse il vecchio mendicante.

Fu lui a raccontarmi questa storia, seduto al tavolo di un'osteria.
Che mistero è la vita!
E' un mistero che solo gli angeli custodi conoscono.
Essi contemplano tutto il giorno il volto di Dio.

Una susina (La storia di Lucia)

Ugo, il barbone, era segretamente innamorato di una signora bellissima.
Ella abitava in una casa grande, alta, stupenda.
L’aveva conosciuta così.
Per caso, un giorno, girovagando, era entrato in questa magnifica dimora e l’aveva vista là, seduta, con il suo bambino in braccio, appoggiato, in piedi, sulle sue ginocchia.
Lei non si era scomposta. L’aveva fissato negli occhi in silenzio.
Lui aveva ricambiato lo sguardo, in silenzio.
“Com’è bella” aveva pensato. L’aveva contemplata a lungo, poi, commosso l’aveva salutata in silenzio ed era uscito dalla porta laterale, quella che di solito usano le vecchie serve.

Da quel giorno Ugo pensò a lei.
Girava per la città, beveva, non si lavava, offendeva anche quelli che non lo stimavano; ma quella signora lo aveva stregato. Ogni tanto, passando di là nel suo vagabondare, s’infilava di soppiatto nella casa, si metteva lungo il muro e la guardava come di nascosto. Talvolta, spavaldo e impertinente si poneva di fronte a lei, da lontano, e parlava con lei, senza dire una parola.
La trovava sempre così, col bambino in braccio, appoggiato alle ginocchia.
Seduta su una poltrona sontuosa. Dignitosa e semplice. Accogliente e silenziosa.
Pareva che lo aspettasse.
Si guardavano così. Entrambi muti.
Ugo usciva dalla casa e non era più lui.

D’estate fa caldo. Ugo, quel giorno di Luglio, decise di andare a trovarla ancora una volta. Teneva in mano un sacchetto di susine, le Regina Claudia. Ne era golosissimo.
Una vecchietta gentile gliele aveva regalate in cambio di un massaggio alla spalla malata.
Ugo, molto tempo prima aveva imparato a fare i massaggi e gli piaceva ancora farli, ai vecchi, ai bambini, agli uomini indaffarati ed ai giovani scapestrati, alle signore tristi ed alle trapeziste scanzonate.
Le trapeziste del circo… quando le massaggiava non si sarebbe mai fermato: avevano le gambe sode e ben tornite. Le sue mani correvano da sole e non si stancavano mai. Ricordava ancora il nome di una trapezista francese che aveva conosciuto in gioventù.

Si avviò col suo sacchetto verso la fontana conosciuta anche da Leonardo.
Il selciato di porfido della piazza gli buttò in faccia un soffio caldo. Che bella piazza!
Il nostro Ugo si era ripromesso di scriverci su una sinfonia… come Finlandia, come Ma Vlast; ma era un povero barbone e l’unico strumento che sapeva far suonare era il suo fischio, al quale accorrevano tutti i piccioni e le tortore che affollavano, non voluti, i balconi e le sporgenze del Palazzo del Podestà. Era più attraente del granturco.

Si bagnò la fronte infilandola sotto una cannella, tirò fuori le susine dal sacchetto, le lavò e incominciò a mangiarle con un gusto incredibile. Quand’ecco… vide una signora bionda con un bellissimo bambino in braccio, quasi bianco nei capelli, piccolo e con gli occhi grandi.
A gesti, Ugo chiese alla signora il permesso di offrire una susina al piccolo. La signora disse qualche parola in una lingua strana, forse svedese. Il bimbo accennò di sì.
Fu così che ad uno ad uno anche gli altri bambini che erano lì presenti si avvicinarono al vecchio barbone e gli chiesero una susina.
Un maschietto dal fare spicciativo, un altro timido, una rossa trecciuta ebbero la loro susina.
Infine una piccola, gli occhi azzurrini del mare di Sardegna, i capelli lisci e fini come gli spaghetti napoletani, avanzò verso di lui con le mani tese, una sopra l’altra, timorosa e audace.
Lo guardò di sotto in su supplice e certa al tempo stesso. Dio, che sguardo!
Ugo si voltò indietro e chiuse gli occhi. Le offrì una susina e si commosse.
Chissà se in Paradiso le bambine ci guardano così !?

Una piccola ballerina. Una mansarda. “Guarda, Ugo: io so ballare”. Ugo prende la chitarra e strimpella un semplice valzer. La piccola ballerina si muove a tempo.
“Gabriella, tua figlia è una ballerina bravissima. Bisogna mandarla a scuola!”

E così fu. Piano piano divenne maestra di danza e piano piano crebbe.
Ugo avrebbe voluto che diventasse una grande etoile.
Sognava già il giorno in cui l’avrebbe accompagnata alla Scala e lui, nel loggione avrebbe guardato tutti applaudirla e l’avrebbe aspettata all’uscita. Le avrebbe offerto la mantellina di pelliccia e l’avrebbe difesa da tutti quei gagà petulanti e birichini.
Lei aveva preferito diventare dentista. Con tenacia, con semplicità, determinata come sempre, ora costruiva degli apparecchi per i bambini paurosi e per i vecchi sdentati.
Ed anche lì era un’artista.
Un giorno aveva confidato ad Ugo che voleva correggere i denti storti facendo ballare la gente. Ugo era al settimo cielo. Già pensava alla scuola di danza per curare i denti storti.

Ugo continuava ad invecchiare e la ballerina diventava grande.
Come tutti sanno, le ballerine che diventano grandi, prima o poi incontrano un ballerino (beh, anche un non-ballerino) che le fa sognare. E si mettono a seguirlo. E’ la vita.
Ugo era molto contento, perché il ballerino della sua piccola amica era veramente un bel ballerino. Piccolo, ma tutto solido. Forte. Simpatico. E generoso.
Ugo si disse che non avrebbe mai visto la Scala dal loggione e non sarebbe passato neppure per la porta riservata agli artisti, un sogno infranto; ma era così contento a vedere la sua ballerina contenta.

Appoggiato alla colonna, in faccia a tutti, senza temere la derisione, come un bambino in prima fila, che non si vuol perdere lo spettacolo dei saltimbanchi alla festa del 4 Luglio a Boston, Ugo guarda i suoi giovani amici.
C’è anche la sua Signora, col suo bel bambino in braccio. Dall’alto guarda tutti, tutta quella gente entrata in casa sua per fare festa. Ugo guarda, si sposta, non può stare fermo.
Bella e vestita di bianco, la sua ballerina senza tutù, si alza ed offre i suoi fiori alla Signora e fa un inchino. Che grazia! Che gentilezza!
Ugo non ce la fa più. Neanche alla Scala avrebbe mai visto uno spettacolo così bello!
Rovescia le labbra all’ingiù e si nasconde il volto.
La ballerina lo riconosce fra i tanti amici, si volta e lo va a salutare. “Ugo” e lo bacia sulla guancia. Che onore!
La Signora è là, silenziosa. Ugo si mette di fronte. “Le affido la ballerina - sussurra in silenzio - è così felice!”

La vita riprende. Ugo il barbone gira ancora per la città.
Se lo vedete offritegli una susina. Regina Claudia, mi raccomando. Ne va ghiotto.
E, se ci riuscite, salutatelo con un bel “Ni hao”.
E non preoccupatevi se i suoi vecchi occhi cisposi diventano lucidi. Lui è contento.

Mia mamma era orfana

“Mia mamma era orfana” rispose la tartaruga quando la interrogarono.

Era stata sorpresa dalla pattuglia che vigilava i confini del campo. Qualcuno aveva avvisato i soldati che una strana creatura si aggirava sospetta strisciando ventre a terra dove nessuno doveva trovarsi.
Le tartarughe, lo sanno anche i bambini, non fanno del male a nessuno e sono molto paurose. Si crogiolano al sole quando è caldo, si buttano nell’acqua al primo pericolo.

Uga era molto curiosa ed ingenua. Era convinta che tutti le volessero bene ed era molto contenta di essere al mondo. Andava in giro volentieri a scoprire che cosa ci fosse attorno a lei.

La sua mamma era molto intelligente e le aveva raccontato tante cose, l’aveva tirata su bene. Sapeva che cosa significa soffrire la fame e la solitudine: era stata in collegio fin da piccola dalle sorelle tartarughe di un campo sabbioso vicino al mare. Quando era diventata grande era stata accolta in casa dalla zia Gigia, una tartaruga senza famiglia e senza figli, che viveva col fratello su una collinetta che guarda il mare, in un vecchio nobile castello che esiste ancora.
Lì aveva incontrato Enrico, il tartarugo fico. Bello e ricco. Due campi di insalata ricciolina tutti suoi ed una cultura non da poco. Era un “dottore”. Era stato educato dai padri tartarughi di Faenza, sulle sponde del Lamone, terra di ribelli e di santi, uno strano miscuglio di guelfi e ghibellini.

“E allora? - la affrontarono sgarbati – Che cosa ci fai qui, al buio? Che cosa stavi preparando? Chi sei? Chi ti ha dato il permesso? Perché non stai al tuo posto? Perché turbi la quiete dei tuoi vicini?”

Uga non si rendeva ancora conto. Era semplicemente uscita a fare due passi, lentamente, contemplando le stelle e masticando qualche  foglia qua e là, tanto per assaggiare nuovi gusti.
C’era una falcetta di luna così invitante ed una stella in cielo brillava così gentilmente…
Un grosso rospo le aveva attraversato la strada senza una parola, con quel suo sguardo sempre imbronciato; ma non le aveva detto “Fatti più in là!”. Una lucertolina che andava all’asilo l’aveva guardata stupita e sorridente. I grandi tigli le avevano offerto tutto il loro profumo ed il lombrico del sentiero a destra dopo la prima curva le aveva camminato a fianco per un piccolo tratto poi si era infilato nell’erba affondando nella terra.
Lentamente, tranquilla, aveva camminato per tanto tempo. Chissà come era finita lì?

Ma chi aveva allertato le guardie attribuendole pensieri cattivi e propositi biechi, che lei non aveva mai avuto? Era semplicemente uscita a fare una passeggiata. Tutto qui.

“Mia mamma era orfana – riprese – ma mi ha sempre voluto bene. La nonna Caterina aveva preso freddo un giorno nel campo, sotto la pioggia d’inverno. Uno sternuto, non è niente, due, tre, la tosse…il tartarugo dottore era arrivato quando ormai Caterina aveva già alzato le gambe in su. Non c’erano tanti dottori allora…Erminio, il babbo era morto di crepacuore. Un dolore troppo grande. Voleva bene bene a quella tartarughina incontrata nel campo di là dal fiume e avevano messo al mondo otto tartarughini, uno più bello ed amato dell’altro.
Così, da un giorno all’altro la mamma di Uga, le sue sorelle e i suoi fratelli si erano trovati soli.
Ma le tartarughe, lo sanno anche i bambini piccoli, sono animali vecchi e saggi.
Chi da un parte, chi dall’altra, tutti furono accolti dalle tartarughe vicine e vissero.
La mamma di Uga era bellissima, come un angelo. Sapeva fare tutto e imparava tutto. Era molto curiosa, molto intelligente e molto buona. Uga aveva preso da lei, ma era più ingenua e si metteva spesso nei guai.

“Sta attenta – l’ammoniva la mamma – il mondo non è come pensi tu”
“Il mondo ha delle regole e bisogna starci” gli ripeteva un gufo suo amico, tanto saggio quanto tenero nei confronti di questa strana tartaruga bizzarra e sprovveduta.

Erano state gentili le guardie, non l’avevano legata. L’avevano solo presa per la corazza e messa su uno strano carro chiuso da cui non poteva uscire. L’avevano portata in una sala bianca, con tanta luce dove una buffa creatura con tanti anelli e riccioli neri l’osservava severa e gentile.
Poi, messa la lingua fra le labbra aveva cominciato a scrivere scrivere e non finiva più.
“Fa’ la brava, Uga, adesso ti riportano a casa; ma non arrivare più fino al confine. Non si può!” le aveva raccomandato alla fine.

Uga assentì, ma non riusciva a capire perché non si potesse.
Ubbidì. Guardò la falcetta di luna e la stella che le brillava a fianco. Tornò a casa e si addormentò.

“Mia mamma era orfana – pensò – ma mi ha sempre voluto bene. Chissà come mai?”
Il pensiero si spense lentamente e Uga si ritrovò in un campo senza confini. Dovunque andasse nessuno le diceva “qui no” “la no”. Si risvegliò vicino al vecchio muro di mattoni che la riparava dal vento e dal sole.
Aprì gli occhi. Guardò all’intorno e riprese a camminare, paziente, nella sua corazza pesante e leggera.

“Mia mamma era orfana; ma mi voleva tanto bene”.

Incontrò, dietro il tiglio, la sua amica gazza che stava facendo colazione sull’erba. Un grillo canterino, poco più avanti la salutò allegramente e la cicala del platano a destra le dedico una lunga cantilena.
Guardò dolcemente i bambini che si divertivano con gli scivoli e le altalene.
Alzò la testa al cielo, allungando il collo ed aprendo bene gli occhi.
Il sole la illuminò di nuovo e la scaldava, come sempre.
Uga non aveva famiglia: tutto il mondo lo era.
Aveva tutto il mondo per sé.
Chissà chi aveva allertato le guardie?
Nessun problema. Era amata e sarebbe diventata grande.
Come sua mamma, che pure era orfana e le aveva sempre voluto bene.