lunedì, agosto 27, 2018

Il Maestro dei Due Pagliai


Due file di bambini, i più piccoli seduti a terra. 23 grembiulini neri, colletti bianchi e fiocco al collo. Il bianco e nero non rende i colori. Una vecchia casa colonica con pergolato d’uva. Un giovane Maestro in posa austera e due pagliai a fare da sfondo.
La fine della guerra non aveva ancora 10 anni e loro appena 6. Le bombe inesplose facevano ancora paura, ma loro, i piccoli, godevano della vita, in un piccolo paese del preappennino già glorioso per storia e natali.
Sul promontorio che chiude la valle e la sorveglia ancora come ai tempi di Roma ed ancor prima, i giovani marmocchi con le aste e i quaderni cominciavano la loro avventura da giovani scolari protesi alla conquista di ponti, industrie chissà, di campi da curare e pecore da pascolare, chi votato per nascita a grandi traguardi e chi semplice barbiere, chi destinato a viaggi e commerci e chi umile nonno di nipoti.
La vita è un mistero!
Non c’erano femmine fra loro.
Le classi rigorosamente separate, calzoni corti per gli uni, sottane a vita per le altre.
Così almeno si viveva allora.
La fontanella all’angolo dell’arco vicino alla scuola non c’è più e neppure i buoi, le oche ed i cavalli che li incuriosivano nei giorni di fiera, perché la scuola si affacciava sul campo dove i sensali concludevano gli scambi con una stretta di mano, che vale più dei contratti a 10 pagine di oggi
Due piani la casetta, due rampe di scale fino alle aule, che occupava il piano alto, il primo, e gli angoli utili per il gioco dei quattro cantoni.
I bambini si divertono con poco: la compagnia degli amici e quello che trovano in giro.

Al Maestro manca davvero poco per fare 100, gli anni tondi tondi di una vita passata a insegnare, a mettere su famiglia e nipoti, a soffrire e godere, come ogni uomo, nel breve tempo, che passa tra la nascita e la morte.
I bambini sono ancora vivi, qualcuno sì qualcuno no, per vari motivi; ma non hanno più i calzoncini corti. Uomini, nonni, belli come allora, con qualche ruga in più e allegri come un tempo.
Attorno alla tavola lunga della piccola vecchia osteria pasteggiano bevendo e gridano a voce alta e incurante come nella ricreazione di un tempo, quando si buttavano di corsa giù per le scale a scendere nel campo.
Il vecchio Maestro ascolta e li riguarda. “Maestro, l’appello; faccia ancora l’appello. Lì ci sono i nostri nomi!”. Il Maestro, come allora, invita a ringraziare Colui che ci è padre e tutti insieme, vecchi scolaretti, in piedi, laici e non, in mezzo all'Osteria, preghiamo. Il Maestro accenna a un discorso, un richiamo a essere degni di chi li ha preceduti in quest’augusta città, piena di storia e di onore. “Desidero essere ricordato da voi come il maestro dei due pagliai”, lui che era all’avanguardia nei metodi e nello stile di insegnamento. Maestri si è per sempre.
Una portata dietro l’altra scorrono i piatti e si riempiono i bicchieri. Un antipastino con triangolini di piada e pezzi di pane casareccio, dei cassoncini di patate e verdurine a pezzi cotte e unte quanto basta lasciano il posto piano piano, nel gentile ossequioso servizio della cameriera, a piatti di ravioli e strozzapreti, pollo e salsicce, costicce e castrato, con listarelle di pancetta, innaffiato il tutto da un generoso e sano sangiovese nostrano. Urla, ricordi, risate e commenti si rincorrono di qua e di là fino a raggiungere un gruppetto di ragazzi nel cortile, che, vestiti da finti figli dei fiori, li invitano a cantare l’inno nazionale di questa terra, “Romagna mia”.
Chi ha fatto carriera e cura gli interessi dei preti, chi si è scoperto artista dopo una vita a fare l’ingegnere, chi non segue più le pecore dopo la scuola, chi ha fatto il venditore di una Ditta dal nome famoso in ogni dove, chi ha girato il mondo vendendo armi antiche, ma funzionanti, e chi in pensione dopo una vita a dirigere una banca, il più bravo e studioso della classe che, giustamente, ora è l’ultimo di tutti, tutti godono della reciproca compagnia.
Il tempo non è passato invano. Il tempo, si dice, è galantuomo e porta a compimento quello che è stato seminato, come recita la targa di ringraziamento al Maestro di tanta infanzia “Anche nei terreni più aridi, il seme ben coltivato germoglia”. Il Maestro regala a ciascuno un piccolo libretto di lingua romagnola, che lui non sa parlare, come a farsi scolaro dei suoi scolari, che l'hanno avuta da sempre come lingua madre.

64 lunghi anni sono passati. I due pagliai non ci sono più. La vecchia scuola ha lasciato il posto al Museo e la fontanella scorre forse nascosta dietro un muro di cemento. Al posto del Foro Boario c’è un giardino ben curato e la strada della vecchia casa colonica è asfaltata e ben percorsa da tante auto. Sul marciapiede che non c’era 12 uomini e un Maestro rifanno di nuovo la foto, che li ha visti bambini.
Nessuno ha il grembiule e nessuno siede a terra – siamo ancora capaci di reggerci in piedi per ora. Quelli che mancano ci sono lo stesso, quelli “partiti” ci guardano dal Cielo. 64 anni e tanto piacere di rivederci. Non ci sono le donne, come allora, le mogli aspettano fuori, qualcuna si azzarda a raggiungerci dopo il pranzo, rimessa subito fuori al suo posto, come al modo romagnolo.
Le donne negli affari degli uomini…

Saluti, ringraziamenti, arrivederci ai prossimi 64 anni o no, meglio prima, chissà?
Che bella idea questo pranzo fra amici di classe!
La Prima Elementare del ’54!


domenica, agosto 12, 2018

Tre donne intorno al cor mi son venute

Il piccolo ruscello scende dalla collina fra sassi e cespugli, attraversa la strada sotto un piccolo ponte, piega da un lato all’improvviso  e corre sulla porta della casetta sul bordo del campo, dove abita la Rosina.
Alcune volte, senza chiedere il permesso, entra anche in casa, quando vento e tempesta schiaffeggiano quella valle così cara alla Madonna.
“La ragneva ma tot, ma  l’era la ma ad tot”[1]
Rosina è partita. Se né andata in Paradiso, dalla città sul mare dove l’hanno portata perché non ce la faceva più. Tanti anni passati a chiacchierare con la sua Madonnina, tanti anni a tenerle pulita la casa, a ricevere i suoi ospiti, a stare con Lei da sola. “Ti saluto, Madonnina” quando entrava e “Ti saluto, Madonnina” quando usciva. 
La chiesa di Valliano è lì dal IV secolo. La custodiva da anni. Il giorno delle feste e i giorni del lavoro. Quante volte aveva fatto quella salita! Fino a quando, un giorno di primavera , s era abbandonata sul petto del prete che lei amava e gli aveva confidato: “Non so se ci vedremo ancora…” 
La Madonnina l’aspettava…


Chissà se a Filadelfia c’è un ruscello o un fiume grande?! 
E’ così lontana la città dove  si amano i fratelli e dove fu scritta la libertà degli americani, quegli stessi che poi lanciarono l’apocalisse su Nagasaki!
Una bambina, una giovane sposa, una mamma, una prof, che amava i suoi ragazzi. 
Colette fu italiana a causa del marito e parlava così bene la nuova lingua che tutti ne erano stupiti. Sempre allegra, sempre serena, sempre grata… fino al giorno in cui il suo fegato impazzì e dopo pochi mesi Colette fu, la pancia gonfia e senza più capelli. 
E’ strano! Tutto passa, il tempo ruba la vita e la trasforma, la porta al nulla, sembra, come ombra che passa, eppure… il giorno che il Pope incensò la salma fra i canti e le preghiere, Colette radunò tanti amici, diversi, cristiani divisi, tutti attorno a lei, tutti tristi e lieti, perfino i ragazzini compunti e presenti, senza lacrime disperate, con dolci sorrisi e sereni.
Un umile piccolo cimitero di campagna accoglie la figlia dell’orgogliosa aquila dalla testa bianca.
Ut unum sint.


Non c’è pace in Europa. Un semplice soldato tedesco muore colpito dal fuoco nemico. 
Dalla parte giusta o no, la guerra è assurda e senza senso, distrugge cose e persone, lascia orfani i bambini. Che colpa ne hanno? 
Un anno è poco. Non sai nemmeno che volto ha tuo babbo e non lo conoscerai mai. 
La piccola bambina solo nel racconto della mamma lo vede e lo desidera. 
“L’anima mia desidera il Tuo volto”.
Il tempo trascina con sé anche i bambini. Pur soli e disperati diventano grandi.
La Baviera è cattolica e si va a Messa la Domenica, più o meno certi  della presenza di un Dio buono.
Christa va e ogni tanto prega. Qual è la mia strada?
Un volto, una vicina di casa coi capelli scuri, una strana tedesca, per lei così bionda e così ariana.
Una tazza di tè e diventano amiche, confidenti, sorelle. 
Una vita insieme, le vacanze insieme, in Italia, con altri amici. E’ la loro famiglia.
Christa è silenziosa, atletica, corre per le montagne.
Una visita e la triste notizia. Pochi mesi di vita. Il male del secolo ha colpito ancora, quello che non guarda i confini, non si cura dell’età e prende possesso della carne altrui come fosse la propria.
Christa è lieta, serena, gioiosa. “Conoscerò mio padre e tutti quelli che mi aspettano”.
Un pranzo per gli amici  e la festa di un incontro atteso e desiderato. Tutto è buono.
Christa è bella, molto più bella ora di quando era giovane. 
Gli amici vanno per farle coraggio e tornano consolati.
Non è un funerale; è una festa.

Il tempo fa così, si riempie passando, non porta via, compie.
Si compiono gli anni e cresce la vita. Il tempo è un cammino.

Il piccolo ruscello, il dolce Rio Melo, scorre sempre sotto la strada, poi sbuca e s’immerge gorgogliando nel campo a valle, verso il mare.

“Tempus sicut umbra fugit et nulla est mora” è scritto sulla meridiana di una chiesa polacca.

Il tempo fugge come l’ombra e non v’è pausa.
Il tempo compie come il mare e non v’è dubbio.



[1] Sgridava tutti, ma era la mamma di tutti