mercoledì, luglio 19, 2023

Ricordi condivisi

Che bello aver ritrovato la Mimma!

Oltre la gioia c’è la possibilità che in questo modo i miei ricordi infantili siano più precisi, confermati o corretti, diciamo “condivisi”. Come due innamorati vedono le stesse cose del loro rapporto, ma da punti di vista diversi, complementari e arricchenti, così tante cose possono riprendere il loro posto.

I ricordi dei bambini, come tutti sanno, sono vividi e fantasiosi al tempo stesso, portano tutto lo stupore della sorpresa di fronte alla realtà; ma spesso non la colgono per intero, sfugge loro “l’intero”.

Questo raccontino, nella sua forma definitiva, sarà perciò un’opera a due mani, con due protagonisti: la Mimma e io.

I vecchi, si sa anche questo, non ricordano più il passato prossimo, ma il passato remoto è per loro un presente chiarissimo e spesso si rifugiano lì, non tanto per fare un bilancio della vita, quanto per riscoprirne tutta la freschezza, lo stupore delle origini.

Bene.

Ricordo bene la mia passione per il Circo e una “ballerina” (oggi la chiamerei trapezista) con gambe bellissime che camminava su un filo al suono di una musica affascinante ed ero in compagnia di una ragazza grande (per me), la Mimma… ma mia mamma dice che non è vero, il Circo non è mai venuto a Sarsina…a Corpolò sì però potrebbe… Stefano, però, il mio fratello nato a Dicembre due anni dopo ricorda un Circo e un leone spelacchiato e triste, che aveva montato il tendone nel campo dove mettevano le giostre per la festa di San Vicinio. Ora quel campo sportivo, che confinava con il muro di sostegno di via Linea Gotica, è stato trasformato in parcheggio coperto. Il circo è venuto a Sarsina…

A proposito di giostre, mia mamma, molto parca nei racconti e nelle confidenze, mi disse che un giorno tornai a casa con una novità: “Vado via con le giostre - le dissi – C’è una bambina bellissima, mora, coi capelli lunghi”. Ero molto precoce, ma la bambina delle giostre mi è rimasta nel cuore per molti e molti anni e un giorno in Ospedale mi fu assegnata in terapia la Regina degli Zingari, una donna di circa 70 anni bellissima ancora e disprezzata dalle infermiere per la sua etnia…  La ebbi molto cara, in virtù del ricordo della morettina che mi aveva affascinato da piccolo. 
Un giorno glielo confessai e lei di rimando: “Di dove sei? Quanti anni hai?”
“Di Sarsina. Sono del ‘49”
“È mia nipote, la figlia di mio fratello!”
Il giorno dopo avevo il turno pomeridiano. Mi vennero incontro le infermiere della Medicina: “Dov’eri? Dove sei stato? Ci ha intontito, voleva che ti trovassimo ad ogni costo; stamattina è venuta la sua nipote a trovarla…”
Accipicchia! L’avrei riconosciuta fra mille, ne sono sicuro.
La Signora Lanza, la Pierina, come voleva che la chiamassi, fu dimessa e tornò alla sua roulotte. Aveva bisogno di cure in un Centro di Riabilitazione, ma non volle. Andai a trovarla nel campo che è ancora della famiglia, vicino al semaforo appena dopo la Fornace Marchesini, prima di Cerasolo, sulla Superstrada per San Marino, a sinistra, prima della salita che va in collina e scende poi a S. Maria in Cerreto.
Mi accolse come un principe e diventai amico della famiglia, d Claudio in particolare, il primogenito. Ancora vado a vedere se c’è qualcuno, ma ci sono i giovani, i nipoti della Pierina e non si ricordano più.
Anni dopo, dal Carlino, venni a sapere che era morta dalle parti di Reggio ed erano venuti tutti i giostrai, perfino dall’Europa qualcuno.
La Pierina…
 
Ricordo benissimo il primo regalo ricevuto, un trenino fatto con la mota (fango) dal figlio di Xentano, l’autista della SITA. Era più grande di me di qualche anno. Prese del fango, ne fece un mattoncino e sopra ce ne mise un altro po’ a forma di cilindretto, il camino…perché a quel tempo gran parte dei treni andavano a carbone. Me ne tornai a casa, in piazza, la prima casa in cui abitammo a Sarsina dove vivevano due sorelle “antiche” (non sposate): la Livia e la Celeste, già avanti con gli anni. La mostrai a mia mamma, con le braccia tese, come si offre una corona, uno scrigno prezioso. Il mio amore per i treni nacque così. Forse era il 1953.
Dormivo nella camera in fondo al corridoio a destra; a sinistra c’era la sala. Avevo paura del buio e del lupo, mentre mio fratello Stefano comperava a 10 lire dal mio amico Giovanni, il futuro barbiere, un piombo per chiudere i pacchi: con quello si potevano tagliare le foglie…delle piante della mamma, che io amavo (piante e mamma). La Celeste e la Livia, se potessi rivederle oggi, le riconoscerei senza dubbio: erano simpatiche e aiutavano la mamma in casa.
Il bagno era fuori, su un terrazzino, di fianco alla cucina, grande, dove la mamma setacciava la farina, stirava i panni col ferro da stiro con dentro la brace e la sera diceva il Rosario col babbo e giocavano a carte, mentre io tenevo quelle giocate.

Al piano di sotto abitava la Signora Cinci, bella e giovanissima, col marito, il Maestro Neri molto severo e all’antica con la figlia Elisabetta…e qui potrei scrivere un romanzo intero, perché anche se non si può dire che ne fossi innamorato, è stata la presenza femminile più viva nel cuore e nella memoria.

“Facevamo i bambini insieme”: è un’espressione così pregnante nei nostri modi di dire che appena appena si può comprendere e forse nemmeno al di fuori della Romagna. Fa ridere; ma è vera: è la prima esperienza sponsale infantile. Condividevamo tutta la vita, birichinate comprese. Crescevamo insieme, quasi come due sposi, perché uno è parte dell’altro, confidenze, sentimenti, pensieri, giochi, dolori, preoccupazioni, scoperte. È la prima scoperta dell’altro, dell’altra persona, dell'altro sentire, ragionare, vivere. Noi in fondo eravamo già sposati senza esserlo. Trecce. La mia passione per le donne con le trecce è nata lì. L’Elisabetta portava le trecce. Comandava lei, come tutte le donne.

Nell’orto di dietro, che faceva parte della casa, c’era, entrando con tre scalini, sulla destra una casetta e una scala esterna. Ce n’è una simile a Rimini vicino al Palacongressi. Un piano terra e un primo piano. Salivamo sulla scala dove abitava un uomo, vecchio per noi, da solo, un orologiaio che ci voleva tanto bene. Non lo disturbavamo mai e ci accoglieva sempre volentieri. Lì ho imparato ad amare gli orologi, quelli meccanici, di allora, non c’erano i transistor e le pile a celle solari.
Quando fu ora di andare a scuola ci separarono. Avevamo la stessa età; ma io feci la “primina”. Dicevano che ero un genio: avevo imparato a leggere da solo, senza che nessuno me lo insegnasse, si stupivano della mia intelligenza precoce…l’Elisabetta era intelligente come me, se non di più; ma le cose erano così: io a scuola e lei a casa. La scuola era davvero bella. Mi piaceva un sacco e poi non l’avevo mica perduta: l’Elisabetta abitava sempre al piano di sotto e giocavamo sempre insieme.
A quel tempo, nel mio paese, le classi erano divise: classi maschili e classi femminili; ma l’Elisabetta era mia amica sempre, anche se era “più piccola” e non potevamo fare i compiti insieme.
È stato così fino a quando, nell’anno scolastico 1965-66, ci siamo ritrovati insieme in Prima Liceo al Classico Giulio Cesare di Rimini, grazie alla mia bocciatura, ottenuta orgogliosamente sul campo!
Grazie all’Elisabetta, a sua insaputa, ho incontrato poi l’amore della mia vita.
Dopo la Maturità non l’ho più vista e sua mamma, la Signora Cinci, mi teneva informato fino al giorno in cui Elisabetta ci lasciò per un tumore al seno. 
Allora erano micidiali!
 
Sulla gioia che ci procurava il bagno nel fiume mentre la Mimma lavava i panni insieme ad altre ragazze ho già scritto; ma vale la pena dire da dove si prendeva il sentiero che scendeva lungo il fianco dell’altipiano su cui sorge Sarsina che fiancheggia la strada verso S. Agata Feltria. Il sentiero era stretto, scosceso e scendeva fino al fiume, il Savio. Col costume da bagno che ho sempre amato, due triangoli di stoffa verde legato ai fianchi coi dei laccetti, che oggi si trova ancora come parte inferiore di alcuni bikini per donne, ma è raro, sguazzavamo nell’acqua bassa, attenti a non andare nei punti più pericolosi dove i gorghi potevano inghiottire anche adulti esperti. Noi stavamo lì, a giocare e godere del canto di quelle ragazze. Poi tornavamo in su, la Mimma col mucchio dei panni lavati. Il Comune anni dopo costruì poi un lavatoio dove cominciava il sentiero.

Al mare, dal nonno, a Rimini andavamo l’estate. Stefano e io abbiamo conosciuto anche la nonna Francesca e anche la Rosy, che aveva solo un anno quando la “Chichina” morì, per “colpa” del nonno che le fece un’iniezione di penicillina senza sapere che era allergica…ma allora la penicillina faceva miracoli e l’allergia ad essa non era ben conosciuta. Stavamo tutti a tavola nella sala verso il pergolato d’uva sul retro. Il nonno stava sempre in silenzio con la mano sinistra appoggiata alla guancia e noi chiedevamo perché facesse così e ci rispondevano che il nonno era preso dai pensieri…ma il nonno, lo capimmo da grandi, stava perdendo memoria e “comprendonio”, lui che pure era stato un gran medico condotto e chirurgo e podestà di San Clemente per un certo tempo, senza essere fascista. Ben voluto, stimato, accolto perfino dai bambini, che, da grandi, gli erano ancora grati per essere stati salvati dalla malattia. La casa del nonno era al mare, in via Marino e c’è ancora, trasformata e ingrandita. Una bella villetta a due piani, grande per contenere anche la famiglia dello zio Gigio e della zia Augusta con i cugini Lelle e Carlo e la cameretta della Signorina Pupa, la nostra cugina primogenita, Maria Teresa Rubele, figlia della zia Angeletta, la primogenita dei nonni e di un facoltoso commerciante di vini di Verona, una grande famiglia. La Pupa era nata prima della Guerra, noi tutti siamo stati esonerati dal parteciparvi e ne siamo ancora grati, io in modo particolare: piangevo e piango ancora solo ai racconti di mio babbo. Non ho mai avuto interessi o desideri militaristi.

La casa del nonno aveva una scala esterna che portava al primo piano, dove c’era l’ambulatorio, non più tanto frequentato, perché ormai quasi tutti i pazienti erano stati “ceduti” al giovane Dr. Renzi. Noi andavamo a curiosare. C’erano i manubri, i pesi per esercitare le braccia. Trovammo anche un bastone da passeggio con entro una spada, come usava agli inizi del secolo, il nostro, il XX, per riparare le eventuali offese all’onore. Il nonno fumava moltissimo, ma non è morto per tumore ai polmoni…negli ultimi tempi dormiva sempre sulla ottomana, preso dalla sua “demenza senile” oggi capiamo; ma allora ci accontentavamo di non disturbarlo e di giocare a cercare i ladri che lui diceva nascondersi sotto i letti, dietro le porte, sotto i tavoli e di chiudere bene le serrande col catenaccino. Noi eravamo orgogliosi di aiutarlo a tenere lontano questi fantomatici malandrini.
Nel cortile dietro la casa c’era una vasca di pietra dove si lavavano i panni. Fra gli altri una volta vidi che lavavano degli straccetti. La mia curiosità era grande, ma mi fu risposto che erano cose per le donne. Negli anni a venire seppi che si usavano al posto di quelli che, chiamati assorbenti igienici, oggi sono venduti in ogni supermercato; ma ai bambini certe cose dovevano restare nascoste. La bellissima canzone “La pansé” di Renato Carosone, che mio babbo ci cantava spesso e volentieri ascoltavamo, fu oggetto di un richiamo deciso a mio babbo da parte del nonno: “Ai bambini non sta bene cantare queste cose!”
Mio babbo aveva una bella voce e anche noi…ma il nonno ebbe la meglio.
Solo da grande ho scoperto il perché di quel divieto, ma la canzone era molto di moda a quegli anni…
 
Il treno, la mia passione fu la causa della mia “espulsione” dalla casa del nonno.
Ero in vacanza al mare e mi piaceva andare al vicino passaggio a livello di Via Pascoli, quasi sempre con le sbarre abbassate, per aiutare la gente ad attraversare passando sotto di esse. Io lo chiamavo “il servizio”. Stavo ore ad aspettare il passaggio dei treni e non staccavo dalla ferrovia.
Una volta mi scappava la pipì, ma, essendo ben educato e di buona famiglia mi vergognavo a farla lì, all’aperto, sotto gli occhi di tutti. La trattenni a lungo finché non ce la feci più e inondai i pantaloncini corti che portavo. E adesso? Sgridate e non finire mi immaginavo. Decisi di tornare a casa e nascondermi sul terrazzo del piano di sopra, dove c’era solo la cameretta dell’Adriana, la ragazza che aiutava in casa la zia Augusta. Non vi dico quanto si spaventarono non vedendomi arrivare a casa all’ora di pranzo e si misero a cercarmi, aiutati anche dai vicini. Mezzogiorno, le due, le tre e io zitto e buono. La fame era tanta e non ne potei più. Mi affacciai alla ringhiera e uno mi vide. Gli feci segno di stare zitto; ma lui urlò: “È lassù, sul terrazzo!” Traditore! MI vennero a prendere e le sgridate furono più numerose di quelle che speravo di evitare nascondendomi. Risultato? Mio zio mi prese e mi riportò a Sarsina col suo motore. Mi rivedo ancora a Cesena, nella curva prima di arrivare al Ponte Vecchio, abbracciato alla vita dello zio Gigio. Fine della vacanza, addio treno e… fortuna che il babbo ha sempre avuto un cuore grande.
Ho imparato lì che non vale la pena nascondersi e nascondere qualsiasi malefatta. Ci si perde sempre di più!
 
C’è una cosa che vorrei chiedere alla Mimma.
Lei aiutava mio babbo in farmacia ed era con lui quando nel 1957 scoppiò la terribile influenza detta “Asiatica”. Di che cosa erano composte le “cartine” che preparavano?
Non c’erano vaccini, non si sapeva come fare… La Mimma e il babbo stavano in Farmacia anche con la febbre alta: in qualche modo bisognava aiutare la gente che stava male.
Scampammo la morte quella volta. I bambini ce la fanno sempre con le pandemie, gli anziani e le donne incinte invece no. Solo in Italia le vittime furono 70.000; nel mondo qualche milione…
 
(Continua)

Sarsina negli anni '50 del secolo scorso (XX)


Rimini quando ero bambino