martedì, novembre 21, 2023

Mario

Molto volentieri ospito l'articolo che un amico giornalista riminese, Serafino Drudi, ha scritto come memoria grata, su Mario Perazzini, umile e dignitoso professore e albergatore, amico sincero di tante persone che hanno avuto la grazia di conoscerlo e stimarlo.

UN DEBITO DI RICONOSCENZA VERSO MARIO PERAZZINI 

Quanto scrivo è un debito di riconoscenza che ho contratto con un amico tanto tempo fa e che non ho mai pagato. È per questo che non lo faccio per professione e non lo faccio sul giornale online sul quale abitualmente scrivo e quindi neppure mi attengo strettamente alle “regole professionali”. 

Questa intuizione poi l’ho avuta, pensate, ai suoi funerali, svoltisi martedì 21 novembre nella strapiena chiesa di San Giovanni Battista. Mario Perazzini aveva compiuto 79 anni il 16 novembre. Sabato mattina si era alzato presto per andare a coordinare la colletta alimentare a Torre Pedrera. Ma durante il tragitto un’auto che veniva in senso contrario sulla statale Adriatica all’altezza di Viserba, è improvvisamente impazzita, piombandole addosso. Ormai lo sapete dalle fredde cronache sui giornali e online, la corsa dell’ambulanza al Bufalini di Cesena, non è riuscita a salvarlo e Mario se n’è andato in Paradiso. Don Claudio Parma presiedeva la celebrazione funebre a cui partecipavano anche altri cinque preti, il parroco don Lauro Bianchi, don Mario Vannini, don Bubi (Stefano Vendemini), don Marino Paesani, don Giorgio Pesaresi. 

Don Claudio nell’omelia ha immaginato il dialogo avuto in quegli istanti tra Gesù e Mario: "Caro Mario, ho cambiato i piani di questa tua giornata e ti sto venendo incontro per dirti che ti voglio con me, presto in fretta, così come sei". E Mario che rispondeva: "Mi stanno aspettando alla Colletta, che aiuta tante persone povere. È tutto pronto per iniziare". Gesù replica: "Lo so e il tuo grande cuore mi commuove, tu sei fra quelli che mi hanno dato da mangiare quando avevo fame ma oggi sei pronto per questo nostro grande incontro". 
Mario, uomo appassionato e generoso, ha risposto che voleva almeno salutare gli amici e anzitutto l’amata moglie Amelia, i figli e le loro famiglie i tanti nipoti e tanti amici. Ma evidentemente Gesù deve averlo rassicurato. "Li saluterai dal Paradiso. Anche perché se volessi farlo non ti staccheresti più da loro. Io stesso ti farò vedere come farlo con più amore perché li vedrai come prima non li avevi mai visti, con gli occhi con cui li guardo io. Non sai che quelli che amo devono passare attraverso la croce che Io stesso ho portato per essere miei fino in fondo? Ti pare poco?" Mario: "No Signore questo è tutto e allora portami con te".

Mario era insegnante di materie tecniche e amministrative al Valturio ma fino a qualche anno fa gestiva assieme al grande aiuto della moglie Amelia un piccolo albergo a Torre Pedrera. Davano una mano anche i figli che crescevano: Betta, Francesco e Marco. Forse questo era il suo primo lavoro; il suo modo di mettere in atto l’accoglienza per chi veniva in vacanza. Clienti famosi, che venivano al Meeting, e meno famosi si trovavano perfettamente a loro agio in questa struttura perché si sentivano come a casa. 
Era uno dei primi e più fedeli componenti della comunità di Comunione e liberazione di Rimini, non certo nei primi posti. Un uomo dal cuore buono, come dice il canto eseguito alla messa. Un canto che Chieffo avrebbe potuto scrivere per lui. 

Alla fine della messa è stato il figlio Marco a parlare, rivelando che i tanti amici lì stavano a esprimere che il carattere che appariva docile e “debole” del padre <nascondeva il suo tratto più forte: la capacità di amare e darsi con discrezione, senza apparire. Hai amato la mamma, le tue sorelle, il mare, il pesce al mercato, il vino, tantissimo noi tuoi figli e i nipoti sopra ogni cosa. Amavi i clienti che venivano in albergo e se ne andavano dalla villeggiatura grati di essere stati accolti come a casa. Ricordo che nel cavalcavia dove è accaduto l’incidente, siamo passati tante volte da bambini e proprio in quel punto ci avvisavi sempre. “Guardate, tra poco si vede il mare”. Quello squarcio di mare che si apre da lì, nonostante si tratti dell’Adriatico e non dell’oceano, aveva il sapore dell’infinito, che puntualmente ci hai trasmesso. Credo proprio che tu poco prima dell’incidente pochi giorni fa, pregustassi di vedere il mare da sopra quel cavalcavia. E quell’infinito anziché vederlo all’orizzonte, ti è venuto incontro, proiettandoti in un mare più grande. Sei stato accolto mentre andavi ad accogliere. È chiaro che la notizia di quella mattina ci ha lasciati smarriti ma poi abbiamo tutti alzato gli occhi al cielo. Grazie perché a tutti ci hai portato a guardare in alto. Pochi giorni prima, per il compleanno gli amici avevano regalato al babbo una foto con la mamma con una poesia in dialetto che s’intitolava “Romagna in Paradiso”.

Vorrei spiegare meglio a questo punto il motivo del mio debito di riconoscenza nei suoi confronti, come dicevo all’inizio. Diversi anni fa io lavoravo al Carlino e lui venne da me per segnalare un’iniziativa extrascolastica rivolta agli studenti delle superiori. Mi disse: "Dovresti scrivere qualcosa!". Un po’ per pigrizia, un po’ perché stavo facendo altro, non scrissi quell’articolo… anche se ebbi modo poi di constatare che lui aveva ragione a fare quella segnalazione. Diverso tempo dopo, bonariamente e simpaticamente come sempre, me lo fece notare. E io gli chiesi scusa. Ma non è solo questo il mio debito di riconoscenza, altrimenti si cadrebbe nel “rischio del ricatto _ come ha detto don Claudio nell’omelia_ di pensare che avremmo potuto fare di più, che avremmo potuto trattarlo meglio e con minore sufficienza”. La vita di Mario ora non è finita ma si è compiuta. E una cosa possiamo fare ora non tanto per lui, ma come ha fatto lui, a cominciare dai famigliari e dagli amici certo: amare la “storia di amicizia che Dio ci ha fatto incontrare”. Voglio fare mia l’indicazione della omelia di don Claudio: <Oggi Mario ci dice una cosa: “Non perdete tempo e siate vigilanti. Vivete con intensità la storia di amicizia che ci ha fatto incontrare. Se volete starmi vicino dovrete amare sempre di più questa storia che oggi mi ha portato davanti a Cristo. Voi nelle vicende del mondo io davanti a Lui, che ora vedo faccia a faccia. Certamente Mario ci rincontreremo, ti rivedremo e ascolteremo la tua voce".

Serafino Drudi



mercoledì, novembre 15, 2023

Il finanziere

Tutti lo chiamavano Ferruccio e così era conosciuto dagli abitanti del piccolo borgo di S. Ermete.
In realtà era il Maresciallo Ferruccio di Mario, conosciuto e stimato in diverse parti d'Italia, da Pennabilli, dove era nato, alla Scuola Alpina di Predazzo, dove si era formato, fino a Roma, dove aveva trovato anche l'amore della sua vita, Anna.

Il cappello alpino, vanto dell'omonimo corpo e dei finanzieri, che ricorda il compito che ebbe la Guardia di Finanza nel garantire il controllo dei confini italiani, è ora appoggiato sulla bandiera italiana posta sulla bara. 
Ferruccio è onorato dal saluto degli appartenenti all'ANFI (Associazione Nazionale Finanzieri Italiani) sul sagrato della piccola chiesa.
Moltissima gente lo accoglie all'interno e la bella omelia di Don Stefano ricorda i fatti salienti della sua vita e le sue azioni tutte spese per l'aiuto a questa comunità: la Casa dei Nonni, il Podere Santa Pazienza, una fattoria didattica per i bambini e Villa Greta per l'assistenza a persone con problemi psichici, oltre l'aiuto alla Parrocchia e alla locale Società Sportiva.

Tre figli, il primogenito, che non nacque mai e due figlie, Elisabetta e Federica. Tre nipoti e tante persone a lui grate. Sempre attivo e prodigo di aiuto a chi glielo chiedesse, la stima e l'affetto dei colleghi del Comando Provinciale della Finanza di Rimini. Meriti e stima ben espressi da molte voci nei saluti finali della S. Messa di esequie e dall'affetto tributato ai familiari da molte persone.

A me piace ricordare un breve colloquio informale avuto con lui alcuni anni fa, quando mi raccontò della sua attività professionale volta al contrasto dell'evasione fiscale. Era stato inviato in una bottega artigianale dove, insieme ad alcuni artigiani regolari, altri operavano in nero, essendo stati costretti alla chiusura della loro attività per difficoltà finanziarie. Alla vista delle guardie erano scappati dal retro. Alcuni suoi subalterni si erano già messi all'inseguimento quando lui li aveva fermati dicendo loro che erano persone bisognose di lavoro per sostenere la famiglia e non di ulteriori guai.

Mi colpì molto questa sua umanità e mi riportò alla memoria quello che un altro finanziere dell'Argentario, amico di un amico sacerdote, mi aveva raccontato di persona. 
Ai tempi in cui l'Isola di Pianosa era un carcere, alcuni detenuti erano riusciti ad evadere, impadronendosi di una barca a remi in inverno e subito era scattato l'allarme e la richiesta di collaborazione a tutte le forze di polizia. Nelle ricerche  fu coinvolta anche la compagnia di cui era a capo. Fu proprio lui a rintracciarli e fermarli, stanchi e infreddoliti. Accoltili e imbarcati sulla motovedetta, i suoi ragazzi gli avevano chiesto: "Comandante, li ammanettiamo?" "Date piuttosto loro delle coperte e del te caldo!" aveva risposto. Al momento dell'arrivo in porto per la consegna degli evasi ai Carabinieri, uno di essi, salutandolo gli aveva detto: "Comandante, se io avessi incontrato prima delle persone come lei, ora non sarei in carcere".

Ricordo questi fatti con commozione. 
Un moto latino recita: "Summum ius summa iniuria",  il massimo del diritto è il massimo dell'offesa, l'applicazione schematica della Legge genera danno e disattende la stessa norma.

Ferruccio è stato un finanziere cristiano, ha vissuto con fede il suo servizio a difesa e tutela della gente, onorando la sua patria e il nostro popolo, nei limiti della sua umanità e nella semplicità dei compiti a lui affidati.

Che sia fatta questa grazia a ciascuno di noi, lì dove è chiesto a ciascuno di noi di rendere gloria a Dio e di amare Gesù.



venerdì, novembre 10, 2023

Tutto per Luciano

E così un altro caro amico se n'è andato.
Un compagno di scuola. Eravamo bambini.
C'eravamo rivisti solo pochi anni fa, avevamo fatto festa al Maestro e oggi siamo qui in chiesa, nella bella Basilica Cattedrale di Sarsina a dargli l'ultimo saluto.

Mi sveglio tardi stamattina; se non fosse stato per Bubi chissà quando mi sarei svegliato.
Sembra che tutto concorra a non farmi arrivare a questo appuntamento. Sarà freddo, pioverà? L'autobus arriva in ritardo e va piano. Chissà se l'autista dorme ancora o avrà dormito poco. Riuscirò a prendere il treno?
Scendo alla fermata più vicina, mi fiondo di corsa verso la stazione, scendo le scale del sottopassaggio; due barboni dormono a terra sotto una coperta; il treno non è ancora arrivato, ha cinque minuti di ritardo.

Ci sono. Un'alba splendida annuncia una giornata da favola.
Cesena. Stazione piena di studenti in attesa. 
Stefano verrà a prendermi per andare insieme a Sarsina.
La farmacia apre alle 8,30 e subito arriva gente.
Le due farmaciste Marika e Federica mi sono presentate da Stefano.
Enrico bussa allla vetrina; esco e lo raggiungo. Parliamo. Il vecchio asilo delle suore mi guarda di fronte e mi risveglia i ricordi, della mattina in cui nacque la mia sorella Rosy, il primo febbraio di una giorno con tanta neve, le suore, la colazione dopo la prima comunione... ora si è trasformato in centro culturale e biblioteca.
La scuola in fondo alla strada da una parte e dall'altra la piazza, il luogo delle chiacchiere e dei giochi, dei primi sguardi alle ragazze, della partenza delle rondini a fine stagione e di tanti incontri quotidiani, il foro degli antichi sarsinati e dei nuovi e di quelli che verranno dopo di noi. Il tempo passa e il mondo si rinnova. Chi c'era non c'è più e chi sarà non ancora, ma la piazza è sempre lì.

Enrico, l' "umarein", mi guida a scoprire tutte le novità, lo scavo nuovo con il tempio riscoperto. Dovevano farci una nuova palestra, con sala multifunzionale e sotto un supermercato Conad, tanto pagava Roma e scavando scavando per puntellare e fare fondamenta, voilà spunta un recinto in pietra arenaria e un pavimento in marmo rosso. E' venuto anche Sgarbi e il Ministro, entusiasti. Bellissimo e tutti i lavori fermi. Chissà cose ne faranno! Il sasso in calcestruzzo della fucina del fabbro l'hanno trovato mentre costruivano una casa ed è rimasto lì, sotto la casa. 
Le case nuove e quelle che c'erano. Giriamo per la Sarsina che c'è e quella che non c'è più.
Enrico è un'ottima guida, con un'ottima memoria. Perché non lo assume la Pro Loco?
Ritrovo il cortile in cui giocavo con l'Elisabetta; la casetta di Fiuchin, l'orologiaio non c'è più e al suo posto una nuova casa ora chiusa. Il nostro grande giardino è sempre stato piccolo, me ne accorgo ora, ma noi ci perdevamo in esso. Il negozio che già fu di Pompeo il barbiere e di Giovanni, il suo garzone, tanto amato dal Maestro.

Giampiero ci raggiunge verso la città bassa. 
Mascherina sul volto, andiamo a far visita a Stefano, il macellaio. Ricordo ancora suo babbo. Il suo fratello gemello Carlo non è mai uscito dalla mia mente e del mio cuore. Adesso non c'è più, nemmeno lui e Armandino e Muzietto, che ci hanno preceduto ed ora Luciano.
Ci accoglie sulla porta e ci sediamo in sala, sul divano. Come se ci fossimo lasciati il giorno prima e sono passati decenni. Si scherza, si ride, si ricorda, si esce insieme ad attendere Luciano. Verrà da Cesena con la moglie e i figli per l'ultima volta. Nato lontano ha voluto riposare coi nonni il babbo e la mamma. Sarsina è stregata: ti entra nel cuore e non ne esce più.
Ricordo bene quando tornò dall'India. L'unico di noi che parlava inglese. "Come on" diceva e noi lo seguivamo incantati. Chi sapeva parlare inglese come si parla l'italiano?! Vuoi mettere? Noi avevamo letto nei libri i posti di Sandokan; lui li aveva visti!

In piazza Fabrizio, Tobia, Giovannino, Enrico, Olindo e Roberto ci aspettano. Festa e saluti, inondati dal sole. Voglio vedere la "mia" villetta davanti al Consorzio Agrario, che ora non c'è più, sostituita da una villa grande, che ha occupato tutto il giardino davanti e l'orto sul retro.
Luciano è già entrato in chiesa e giace a terra sul tappeto rosso con dei fiori sopra la cassa.
La chiesa è piena, di tanta gente e tanti amici venuti da lontano. La moglie e i figli vicini a lui. La chiesa è sempre bella. L'omelia del sacerdote è semplice e chiara. L'amore vince ogni cosa e nulla va perduto.

All'uscita la Giovanna dei tabacchi fa una foto a tutti noi e Stefano del macello è in mezzo a noi. Luciano aspetta nell'auto aperta. Tobia lo nota e ci dice: "Come si usava una volta". Ci salutiamo. Dio voglia che ci ritroviamo ancora insieme. Nulla succede a caso. "Dobbiamo andare in Paradiso tutti, Giampiero -  gli dico - sarebbe un peccato non farlo ora che ci siamo ritrovati".

Seduto sulla panchina appoggiata al muro dell'Ufficio Postale attendo l'arrivo di Giampiero. Andremo a mangiare un piatto di tagliatelle come non si mangiano da nessuna parte al mondo. Fabrizio mi vede, mi presenta sua moglie Vincenza e m'invita a gustare le fave dei morti. In questo piccolo bar pasticceria sotto i portici gustiamo un aperitivo e ci parliamo di tanto e di ciò che verrà. Anche i "vecchi" hanno un loro futuro e desideri inespressi. Chissà perché desideriamo sempre che la nostra vita si compia e sia bella.
Stefano e Giampiero mi hanno cercato col telefono, volevano quasi scrivere a "Chi l'ha visto". Avevo dimenticato di riattivare l'audio.

"Andiamo a mangiare!" 
Saluto mio fratello, Marika e Stefania e seguo Giampiero, fiducioso e contento di stare con lui. Il ristorante, piccolo e molto accogliente, si trova di là dall'altra  parte della strada, trafficatissima a suo tempo dai camion che andavano a Roma ed ora vuota del traffico pesante che la superstrada lungo il fiume ha sostituito permettendo di non passare più per le pericolose curve di Quarto. Entriamo. 
Una bellissima ragazza africana mi incrocia quasi sulla porta. La conosco. Ma si, è proprio lei! Con l'ultima bambina nata, stupenda con una fascia in testa. 
"E tu cosa ci fai qui?"
"Ti ho visto prima in chiesa. Sono amica della figlia di Luciano"
Che sorpresa fantastica! Un'amica carissima di Bubi, nuora di un'amica indimenticabile, e suo marito...la Kelly!
La presento a Giampiero.

Un tavolino al centro della piccola sala ci accoglie con tanti avventori. Si mangia bene qui e a buon prezzo! Ci accomodiamo, ordiniamo. Tagliatelle ai piselli e ravioli al ragù. Il panorama è fantastico. Tutta la valle a mare si apre davanti a noi e Perticara in cima sullo sfondo.
Le storie della famiglia Fabbri ci fanno da contorno; la notizia di una camion che brucia in galleria ci riportano alla realtà. La lunga fila di auto che vediamo dall'alto di Calbano e che troviamo al ritorno da questo piccolo borgo sovrastante la città capitale degli Umbri prima che Roma la facesse sua, ci rivela tutto il dramma. Superstrada chiusa e lunga fila sulle curve della vecchia strada per la Città Eterna. Pochi chilometri per una lunghissima attesa.

Il nuovo Teatro Plautino in cima a Calbano è come una cattedrale nel deserto. Pochi giorni di manifestazione teatrale e lunga pausa in attesa di quelle future. Grande, moderno, da 900 posti, ad anfiteatro come si usava in antico, con copertura automatica in caso di pioggia, aspetta paziente i grandi attori e gli appassionati spettatori.

Lungo la valle che porta a S. Agata Feltria nuovi racconti e nuovi sguardi. Giampiero mi porta a vedere dei posti incantati: Petrella Guidi, il piccolo borgo che guarda dall'alto la riva sinistra del Marecchia in faccia a Pennabili sull'altro lato, è stato rinnovato e abitato da ricchi amici di Tonino Guerra. Vediamo due lastre coi nomi di Fellini e la Masina, sua moglie. Scendiamo a Ponte Messa per il pane e la farina. Il forno è chiuso ed il mulino rinnovato macina in continuazione il grano. Molino Ronci, macinato a pietra. Marcello, il proprietario e amico di Giampiero ci saluta cordiale. Passano gli anni, muta il colore dei capelli, ma la stima e l'affetto restano immutati.

Saliamo a Pennabilli. Entriamo nel paese. All'angolo della piazza il mini-ristorante della Peppa conserva solo la vetrina. In mezzo alla piazza la fontana della pace ci ricorda il tempo in cui i due borghi contigui di Penna e di Billi si unirono in un'unica comunità. Dall'alto della roccia di Penna si vede ancora sulla cima dela roccia vicina la croce e il convento delle monache di Billi. La campana tibetana, copia dell'originale di Lhasa, ricorda ancora il lavoro e la missione di Fra' Francesco Orazio Olivieri della Penna in quel paese lontano dove nasce il Gange. Appena più in basso una targa in maiolica di Tonino Guerra ricorda la vita di una donna che amava chiccchierare in silenzio con la Madonna nella chiesa contigua. Un bellissimo affresco della Vergine in trono col bambino ci accoglie nella penombra della sera e della chiesa. Nelle sere invernali e nelle calde giornate estive le due donne si parlavano da amiche. Sull'altare una luce rossa accesa ci ricorda la presenza del padrone di casa. Nell'ampio spazio semplice, un organo sulla porta non suona, ma ci ricorda che il luogo è frequentato. Le strade strette ci riportano in piazza e poi a valle. Giampiero conosce bene e ama questi luoghi. Torniamo e verso casa, una breve deviazione ci porta in un angolo sconosciuto, un ghetto di case pressochè invisibile dalla via principale che percorre verso l'appennino l'appendice nuova della Provincia di Rimini riportando in Romagna questa terra al confine, contesa  in antico fra i Duchi di Urbino e i Malatesta da Verucchio, signori di Rimini. Una loro discendente è tuttora mia amica di Liceo. 
La storia si rinnova e passando di età in età ci rende edotti a chi apparteniamo: non siamo soli, siamo di qualcuno.

Nel silenzio della sera e nel traffico convulso del fondo valle, sulla Marecchiese. giungiamo a S. Ermete. Sono a casa. Il buon Giampiero tornerà a Imola, da sua moglie e da sua figlia Sara.
Che bella giornata! Gli amici, le nuove scoperte, gli incontri, la compagnia, i ricordi, il sole e la vita. 
Tutto per Luciano. Grazie a Luciano.

"Suonaci qualcosa che sia dolce e amara come la vita" dice un brigante a Toma Alistar nel meraviglioso film di Emil Loteanu "I Lautari".
La vita è molto di più che un film, è un film vero, in cui ciascuno di noi partecipa da protagonista. 
Si nasce si muore, dentro una  bellezza che incanta, di cui la morte non è l'ultima parola. 
Grazie a Gesù. 
Grazie a Luciano, oggi con Lui.













martedì, ottobre 31, 2023

La porta di casa


“San Francesco chiamava la morte, la chiamava sorella, perché la morte non è più dove uno si sfracella dentro per sempre; è come la porta di casa. Io me la ricordo la porta di casa mia, è un pezzo che non vado più a casa, me la ricordo tutta nei minimi particolari, di legno con quel vetro. Me la ricordo come fosse qui davanti a me. la porta di casa. Perché? Suonando il campanello mi veniva ad aprire la mia mamma, il mio babbo, i miei fratelli: entravo nella familiarità; la morte è la stessa cosa, è diventata la porta di casa. Perché noi veniamo dal cielo e torniamo nella patria celeste, cioè il Paradiso”.
 
Rosario ha fatto in tempo a compiere 50 anni, appena in tempo, in un letto d’ospedale, in un lago di sudore e 42 di febbre. 11 giorni di agonia, sperando, combattendo contro la leucemia e facendo una morte orribile, come se qualcosa svuotasse il suo corpo da dentro, riducendo il suo corpo a ossa, lui che era un bell’uomo, giovane, orgoglioso dei suoi figli e della sua donna che amava, riamato.
Una vita non facile, fatta di povertà, dolore, espedienti, lavoretti e tanta dignità.
 
“Io combatto, non mi arrendo. Anche oggi tante sacche di sangue, ma non sanno cosa fare” aveva detto a un amico dall’ospedale
 
Bubi lo aveva presentato al “Signor Stefano”, un amico, un piccolo imprenditore alcuni anni fa, per aiutare lui e la famiglia in difficoltà. La possibilità di un lavoro, qualcosa. Sette anni fa. Aveva cominciato qualche volta, a chiamata. Via via era cresciuta la stima e l’amicizia, la gratitudine e l’impegno. Rosario aveva ritrovato dignità. A volte saltava il lavoro, a volte non si presentava e il “Signor Stefano”, paziente, con un grande cuore e lo sguardo acuto gli aveva dato responsabilità. Rosario era rinato, ricambiando la fiducia, mostrando ai figli tutte le cose belle che riusciva a fare con gli altri colleghi, nelle fiere e andava imparando con passione il nome delle piante che sistemava con cura negli stand.
 
Nemmeno il “Signor Stefano” conosceva tutte le persone che Rosario conosceva, dalle bariste del bar in cui prendeva il caffè a tutti quelli che girano intorno a una Fiera. Si alzava puntuale, viaggiava in tutta Italia, mandava foto ai suoi figli: i piatti buoni che gustava, le macchine belle che aveva visto esposte, i lavori che faceva coi suoi compagni. Era rinato, contento. Nemmeno i suoi genitori erano riusciti a dargli quello che ora aveva. Nessuno lo aveva mai valorizzato così.
 
Il Signor Stefano, infine, contento e grato, gli aveva firmato il contratto a tempo indeterminato. La sicurezza economica dopo tanto penare, un’amicizia piena di rispetto e di affetto.
 
Adesso… la terribile malattia lo aveva ghermito, quasi a vendicarsi di tanto onore e di tanta felicità.
“Non si può morire così, è meglio il cancro” ripete attonita sua moglie, la Giovanna, che l’ha seguito come la Madonna sul Calvario, ogni giorno. L’ha visto disfarsi, sotto i suoi occhi, urlando per strada, chiedendo la compagnia di Padre Stefano (Bubi), che non si è mai negato, non l’ha mai lasciata sola. “Ma Gesù c’è, è presente e dice: “Giovanna, non piangere”. Bubi le ha detto un giorno: “Rosario, aveva appena imparato che cos’è il paradiso e Dio lo ha chiamato, gli ha detto: “Vieni a casa”.
 
Stamattina siamo qui: quanta gente! Figli, fratelli, parenti, amici, colleghi e il Signor Stefano. La Giovanna è in piedi tutta la Messa vicino a lui nella bara e ogni tanto si piega su di essa piangendo e poggiando il capo ai piedi di lui. Il fratello grande di Rosario le sta vicino in piedi.
 
Rosario era di Napoli. Sua figlia piccola, “più romagnola che napoletana” come la nominava scherzosamente, legge una lettera al papà indimenticabile. Il pianto si scioglie in un abbraccio. La sorella grande ricorda fra le lacrime la promessa fatta a Rosario sul letto di morte: aiuterò i miei fratelli costi quel che costi.
 
“È un saluto, un addio, A Dio, quindi coraggio, Giovanna, non sei sola. Coraggio!
Perché noi veniamo dal Cielo e torniamo alla patria celeste. Il catechismo ci fa dire: “Che cos’è il Paradiso? Il Paradiso è il godimento eterno di Dio, nostra felicità e in Lui di ogni bene, senza alcun male”.
 
Coraggio, Giovanna, non sei sola. Non siamo soli”.



lunedì, ottobre 23, 2023

In fondo cosa sono 99 anni?!

I numeri della Tombola finiscono col 90.

La vite degli uomini ne contempla diversi: o pochi o tanti; c'è anche una media, variabile di tempo in tempo.
Il nostro Maestro ne compie 99. Proprio oggi. 

Sua moglie non c'è più, ma i suoi tre figli ci sono. Grandi ormai ed un nipote.
Il cielo è sereno. E' ancora caldo a fine ottobre. Quest'anno va così.

E' tutto pronto. Si dispongono i tavoli e le sedie tutt'intorno, nella sala grande con le carrozzine. E' un compleanno di bambini che furono. 99 il Maestro e 90 una signora gentile, che tace sempre, circondata dalle figlie.


E poi tutti gli altri fanno corona, gli ospiti della Casa Quisisana, vicino al treno e al Metromare, nella quiete della spiaggia vicina e di un'estate che non vuole finire più, ci sembra, mentre intorno lingue e idiomi si mescolano strani a creare l'Italiano dei nostri futuri nipoti.


Noi siamo qui, anziani fra anziani, chi ospite e chi no, venuto da casa a far festa, con canti e balli, palloncini e torta e un buffet da capogiro.


Che belli i compleanni dei vecchi! I ricordi la fanno da padroni e le lacrime di commozione al rivedere i volti che non sono più quelli di una volta, ma sono proprio loro. La Tata, i figli, gli amici, gli scolari che una volta portavano il grembiule nero ed ora il doppiopetto e la cravatta, con loro le mogli.


Chissà che dal Paradiso non ci guardi qualcuno che c'era e non c'è più! "Dov'è Giovanni, l'allievo che, diventato barbiere, mi ha sempre tagliato i capelli?" 

Le lacrime si alternano ai sorrisi, i baci alla tristezza e al ricordo. I palloncini ignari si muovono indifferenti, legati al filo che li unisce in lungo corteo di colori

Gli amici cantano le canzoni di una storia comune. Quel "Vecchio scarpone" così caro al Maestro non lo sa cantare nessuno; ma quando s'intona "Mamma" è tutta un'esplosione di voci e di suoni. La base musicale ci richiama la Sanremo di Beniamino Gigli. 

E' tutto un crepitio di stupore, di balli, di saluti, di piatti con mille sapori. Chissà chi mangerà tanta roba! Ecco è l'ora dei regali.

La torta rosazzurra in onore del Maestro e della Signora silenziosa conclude la festa. Saluti, abbracci, richiami, promesse, rinnovo di auguri: "Al prossimo anno, a 100!". Un piccolo passo ancora, un semplice giro di valzer e il prossimo ottobre si compirà il Secolo. 

Maestro, tenga botta! Ormai ci siamo...




venerdì, ottobre 20, 2023

Fu tutto un caso...o forse no!

Quel giorno il materasso per l'amico infermo non andava bene e non lo comperarono. Erano venuti qui apposta.

Quella sera decisero di andare a salutare la famiglia che conoscevano proprio qui vicino e andarono a mangiare nell'attesa. Un'amica li aveva portati al "Coniglio". Avevano già saldato il conto e dovevano già essere di ritorno casa. Si erano trattenuti un poco a parlare con la famiglia amica.

Quella notte un ragazzo aveva fatto festa con gli amici da suo padre. Era tornato indietro per portare un po' di pizza ai suoi, che non c'era più. Era ripartito in fretta; la sua moto sfrecciava sull'asfalto d'estate.

Una botta, un tonfo.

Quella notte le macchine erano ferme al semaforo rosso. Uscirono alcuni al rumore e videro una massa senza forma nel buio. Andarono incontro con le luci dei cellulari. Fermi! E tutto si fermò.

Due preti si chinarono a dirgli: "Non sei solo, Gesù ti vuole bene". Il cuore batteva ancora, la gamba non c'era più. Gli diedero l'assoluzione e tutto finì.

Un grande dolore e una rinascita quel giorno.

Quel giorno fu tutto un caso o forse doveva accadere così. Fu un miracolo, si disse.

Il tempo passa, il dolore continua. Il dolore di un padre non ha confine.

Conselice è sotto Ravenna, Romagna bassa, ma il vescovo è di Imola. Stasera quel padre, il fratello e un amico sono andati a trovare quei preti "del caso", che non dovevano trovarsi lì, quella notte, a quell'ora eppure c'erano, accogliendo per conto di Gesù quel figlio che correva. 

Il Covid ha colpito duro anche qui: li aveva tutti chiusi in se stessi. L'alluvione ha schiantato questa gente, ma sono rinati solidali, aiutandosi.

Hanno mangiato insieme, si sono raccontati. Cosa è successo fra loro nessuno lo sa tranne loro. E' gente-gente. 

L'amico ha dormito all'andata e al ritorno: è stanco, come ogni prete che si rispetti. Il fratello guida. Quel padre ripete: "Stasera vengo a casa rafforzato".




mercoledì, luglio 19, 2023

Ricordi condivisi

Che bello aver ritrovato la Mimma!

Oltre la gioia c’è la possibilità che in questo modo i miei ricordi infantili siano più precisi, confermati o corretti, diciamo “condivisi”. Come due innamorati vedono le stesse cose del loro rapporto, ma da punti di vista diversi, complementari e arricchenti, così tante cose possono riprendere il loro posto.

I ricordi dei bambini, come tutti sanno, sono vividi e fantasiosi al tempo stesso, portano tutto lo stupore della sorpresa di fronte alla realtà; ma spesso non la colgono per intero, sfugge loro “l’intero”.

Questo raccontino, nella sua forma definitiva, sarà perciò un’opera a due mani, con due protagonisti: la Mimma e io.

I vecchi, si sa anche questo, non ricordano più il passato prossimo, ma il passato remoto è per loro un presente chiarissimo e spesso si rifugiano lì, non tanto per fare un bilancio della vita, quanto per riscoprirne tutta la freschezza, lo stupore delle origini.

Bene.

Ricordo bene la mia passione per il Circo e una “ballerina” (oggi la chiamerei trapezista) con gambe bellissime che camminava su un filo al suono di una musica affascinante ed ero in compagnia di una ragazza grande (per me), la Mimma… ma mia mamma dice che non è vero, il Circo non è mai venuto a Sarsina…a Corpolò sì però potrebbe… Stefano, però, il mio fratello nato a Dicembre due anni dopo ricorda un Circo e un leone spelacchiato e triste, che aveva montato il tendone nel campo dove mettevano le giostre per la festa di San Vicinio. Ora quel campo sportivo, che confinava con il muro di sostegno di via Linea Gotica, è stato trasformato in parcheggio coperto. Il circo è venuto a Sarsina…

A proposito di giostre, mia mamma, molto parca nei racconti e nelle confidenze, mi disse che un giorno tornai a casa con una novità: “Vado via con le giostre - le dissi – C’è una bambina bellissima, mora, coi capelli lunghi”. Ero molto precoce, ma la bambina delle giostre mi è rimasta nel cuore per molti e molti anni e un giorno in Ospedale mi fu assegnata in terapia la Regina degli Zingari, una donna di circa 70 anni bellissima ancora e disprezzata dalle infermiere per la sua etnia…  La ebbi molto cara, in virtù del ricordo della morettina che mi aveva affascinato da piccolo. 
Un giorno glielo confessai e lei di rimando: “Di dove sei? Quanti anni hai?”
“Di Sarsina. Sono del ‘49”
“È mia nipote, la figlia di mio fratello!”
Il giorno dopo avevo il turno pomeridiano. Mi vennero incontro le infermiere della Medicina: “Dov’eri? Dove sei stato? Ci ha intontito, voleva che ti trovassimo ad ogni costo; stamattina è venuta la sua nipote a trovarla…”
Accipicchia! L’avrei riconosciuta fra mille, ne sono sicuro.
La Signora Lanza, la Pierina, come voleva che la chiamassi, fu dimessa e tornò alla sua roulotte. Aveva bisogno di cure in un Centro di Riabilitazione, ma non volle. Andai a trovarla nel campo che è ancora della famiglia, vicino al semaforo appena dopo la Fornace Marchesini, prima di Cerasolo, sulla Superstrada per San Marino, a sinistra, prima della salita che va in collina e scende poi a S. Maria in Cerreto.
Mi accolse come un principe e diventai amico della famiglia, d Claudio in particolare, il primogenito. Ancora vado a vedere se c’è qualcuno, ma ci sono i giovani, i nipoti della Pierina e non si ricordano più.
Anni dopo, dal Carlino, venni a sapere che era morta dalle parti di Reggio ed erano venuti tutti i giostrai, perfino dall’Europa qualcuno.
La Pierina…
 
Ricordo benissimo il primo regalo ricevuto, un trenino fatto con la mota (fango) dal figlio di Xentano, l’autista della SITA. Era più grande di me di qualche anno. Prese del fango, ne fece un mattoncino e sopra ce ne mise un altro po’ a forma di cilindretto, il camino…perché a quel tempo gran parte dei treni andavano a carbone. Me ne tornai a casa, in piazza, la prima casa in cui abitammo a Sarsina dove vivevano due sorelle “antiche” (non sposate): la Livia e la Celeste, già avanti con gli anni. La mostrai a mia mamma, con le braccia tese, come si offre una corona, uno scrigno prezioso. Il mio amore per i treni nacque così. Forse era il 1953.
Dormivo nella camera in fondo al corridoio a destra; a sinistra c’era la sala. Avevo paura del buio e del lupo, mentre mio fratello Stefano comperava a 10 lire dal mio amico Giovanni, il futuro barbiere, un piombo per chiudere i pacchi: con quello si potevano tagliare le foglie…delle piante della mamma, che io amavo (piante e mamma). La Celeste e la Livia, se potessi rivederle oggi, le riconoscerei senza dubbio: erano simpatiche e aiutavano la mamma in casa.
Il bagno era fuori, su un terrazzino, di fianco alla cucina, grande, dove la mamma setacciava la farina, stirava i panni col ferro da stiro con dentro la brace e la sera diceva il Rosario col babbo e giocavano a carte, mentre io tenevo quelle giocate.

Al piano di sotto abitava la Signora Cinci, bella e giovanissima, col marito, il Maestro Neri molto severo e all’antica con la figlia Elisabetta…e qui potrei scrivere un romanzo intero, perché anche se non si può dire che ne fossi innamorato, è stata la presenza femminile più viva nel cuore e nella memoria.

“Facevamo i bambini insieme”: è un’espressione così pregnante nei nostri modi di dire che appena appena si può comprendere e forse nemmeno al di fuori della Romagna. Fa ridere; ma è vera: è la prima esperienza sponsale infantile. Condividevamo tutta la vita, birichinate comprese. Crescevamo insieme, quasi come due sposi, perché uno è parte dell’altro, confidenze, sentimenti, pensieri, giochi, dolori, preoccupazioni, scoperte. È la prima scoperta dell’altro, dell’altra persona, dell'altro sentire, ragionare, vivere. Noi in fondo eravamo già sposati senza esserlo. Trecce. La mia passione per le donne con le trecce è nata lì. L’Elisabetta portava le trecce. Comandava lei, come tutte le donne.

Nell’orto di dietro, che faceva parte della casa, c’era, entrando con tre scalini, sulla destra una casetta e una scala esterna. Ce n’è una simile a Rimini vicino al Palacongressi. Un piano terra e un primo piano. Salivamo sulla scala dove abitava un uomo, vecchio per noi, da solo, un orologiaio che ci voleva tanto bene. Non lo disturbavamo mai e ci accoglieva sempre volentieri. Lì ho imparato ad amare gli orologi, quelli meccanici, di allora, non c’erano i transistor e le pile a celle solari.
Quando fu ora di andare a scuola ci separarono. Avevamo la stessa età; ma io feci la “primina”. Dicevano che ero un genio: avevo imparato a leggere da solo, senza che nessuno me lo insegnasse, si stupivano della mia intelligenza precoce…l’Elisabetta era intelligente come me, se non di più; ma le cose erano così: io a scuola e lei a casa. La scuola era davvero bella. Mi piaceva un sacco e poi non l’avevo mica perduta: l’Elisabetta abitava sempre al piano di sotto e giocavamo sempre insieme.
A quel tempo, nel mio paese, le classi erano divise: classi maschili e classi femminili; ma l’Elisabetta era mia amica sempre, anche se era “più piccola” e non potevamo fare i compiti insieme.
È stato così fino a quando, nell’anno scolastico 1965-66, ci siamo ritrovati insieme in Prima Liceo al Classico Giulio Cesare di Rimini, grazie alla mia bocciatura, ottenuta orgogliosamente sul campo!
Grazie all’Elisabetta, a sua insaputa, ho incontrato poi l’amore della mia vita.
Dopo la Maturità non l’ho più vista e sua mamma, la Signora Cinci, mi teneva informato fino al giorno in cui Elisabetta ci lasciò per un tumore al seno. 
Allora erano micidiali!
 
Sulla gioia che ci procurava il bagno nel fiume mentre la Mimma lavava i panni insieme ad altre ragazze ho già scritto; ma vale la pena dire da dove si prendeva il sentiero che scendeva lungo il fianco dell’altipiano su cui sorge Sarsina che fiancheggia la strada verso S. Agata Feltria. Il sentiero era stretto, scosceso e scendeva fino al fiume, il Savio. Col costume da bagno che ho sempre amato, due triangoli di stoffa verde legato ai fianchi coi dei laccetti, che oggi si trova ancora come parte inferiore di alcuni bikini per donne, ma è raro, sguazzavamo nell’acqua bassa, attenti a non andare nei punti più pericolosi dove i gorghi potevano inghiottire anche adulti esperti. Noi stavamo lì, a giocare e godere del canto di quelle ragazze. Poi tornavamo in su, la Mimma col mucchio dei panni lavati. Il Comune anni dopo costruì poi un lavatoio dove cominciava il sentiero.

Al mare, dal nonno, a Rimini andavamo l’estate. Stefano e io abbiamo conosciuto anche la nonna Francesca e anche la Rosy, che aveva solo un anno quando la “Chichina” morì, per “colpa” del nonno che le fece un’iniezione di penicillina senza sapere che era allergica…ma allora la penicillina faceva miracoli e l’allergia ad essa non era ben conosciuta. Stavamo tutti a tavola nella sala verso il pergolato d’uva sul retro. Il nonno stava sempre in silenzio con la mano sinistra appoggiata alla guancia e noi chiedevamo perché facesse così e ci rispondevano che il nonno era preso dai pensieri…ma il nonno, lo capimmo da grandi, stava perdendo memoria e “comprendonio”, lui che pure era stato un gran medico condotto e chirurgo e podestà di San Clemente per un certo tempo, senza essere fascista. Ben voluto, stimato, accolto perfino dai bambini, che, da grandi, gli erano ancora grati per essere stati salvati dalla malattia. La casa del nonno era al mare, in via Marino e c’è ancora, trasformata e ingrandita. Una bella villetta a due piani, grande per contenere anche la famiglia dello zio Gigio e della zia Augusta con i cugini Lelle e Carlo e la cameretta della Signorina Pupa, la nostra cugina primogenita, Maria Teresa Rubele, figlia della zia Angeletta, la primogenita dei nonni e di un facoltoso commerciante di vini di Verona, una grande famiglia. La Pupa era nata prima della Guerra, noi tutti siamo stati esonerati dal parteciparvi e ne siamo ancora grati, io in modo particolare: piangevo e piango ancora solo ai racconti di mio babbo. Non ho mai avuto interessi o desideri militaristi.

La casa del nonno aveva una scala esterna che portava al primo piano, dove c’era l’ambulatorio, non più tanto frequentato, perché ormai quasi tutti i pazienti erano stati “ceduti” al giovane Dr. Renzi. Noi andavamo a curiosare. C’erano i manubri, i pesi per esercitare le braccia. Trovammo anche un bastone da passeggio con entro una spada, come usava agli inizi del secolo, il nostro, il XX, per riparare le eventuali offese all’onore. Il nonno fumava moltissimo, ma non è morto per tumore ai polmoni…negli ultimi tempi dormiva sempre sulla ottomana, preso dalla sua “demenza senile” oggi capiamo; ma allora ci accontentavamo di non disturbarlo e di giocare a cercare i ladri che lui diceva nascondersi sotto i letti, dietro le porte, sotto i tavoli e di chiudere bene le serrande col catenaccino. Noi eravamo orgogliosi di aiutarlo a tenere lontano questi fantomatici malandrini.
Nel cortile dietro la casa c’era una vasca di pietra dove si lavavano i panni. Fra gli altri una volta vidi che lavavano degli straccetti. La mia curiosità era grande, ma mi fu risposto che erano cose per le donne. Negli anni a venire seppi che si usavano al posto di quelli che, chiamati assorbenti igienici, oggi sono venduti in ogni supermercato; ma ai bambini certe cose dovevano restare nascoste. La bellissima canzone “La pansé” di Renato Carosone, che mio babbo ci cantava spesso e volentieri ascoltavamo, fu oggetto di un richiamo deciso a mio babbo da parte del nonno: “Ai bambini non sta bene cantare queste cose!”
Mio babbo aveva una bella voce e anche noi…ma il nonno ebbe la meglio.
Solo da grande ho scoperto il perché di quel divieto, ma la canzone era molto di moda a quegli anni…
 
Il treno, la mia passione fu la causa della mia “espulsione” dalla casa del nonno.
Ero in vacanza al mare e mi piaceva andare al vicino passaggio a livello di Via Pascoli, quasi sempre con le sbarre abbassate, per aiutare la gente ad attraversare passando sotto di esse. Io lo chiamavo “il servizio”. Stavo ore ad aspettare il passaggio dei treni e non staccavo dalla ferrovia.
Una volta mi scappava la pipì, ma, essendo ben educato e di buona famiglia mi vergognavo a farla lì, all’aperto, sotto gli occhi di tutti. La trattenni a lungo finché non ce la feci più e inondai i pantaloncini corti che portavo. E adesso? Sgridate e non finire mi immaginavo. Decisi di tornare a casa e nascondermi sul terrazzo del piano di sopra, dove c’era solo la cameretta dell’Adriana, la ragazza che aiutava in casa la zia Augusta. Non vi dico quanto si spaventarono non vedendomi arrivare a casa all’ora di pranzo e si misero a cercarmi, aiutati anche dai vicini. Mezzogiorno, le due, le tre e io zitto e buono. La fame era tanta e non ne potei più. Mi affacciai alla ringhiera e uno mi vide. Gli feci segno di stare zitto; ma lui urlò: “È lassù, sul terrazzo!” Traditore! MI vennero a prendere e le sgridate furono più numerose di quelle che speravo di evitare nascondendomi. Risultato? Mio zio mi prese e mi riportò a Sarsina col suo motore. Mi rivedo ancora a Cesena, nella curva prima di arrivare al Ponte Vecchio, abbracciato alla vita dello zio Gigio. Fine della vacanza, addio treno e… fortuna che il babbo ha sempre avuto un cuore grande.
Ho imparato lì che non vale la pena nascondersi e nascondere qualsiasi malefatta. Ci si perde sempre di più!
 
C’è una cosa che vorrei chiedere alla Mimma.
Lei aiutava mio babbo in farmacia ed era con lui quando nel 1957 scoppiò la terribile influenza detta “Asiatica”. Di che cosa erano composte le “cartine” che preparavano?
Non c’erano vaccini, non si sapeva come fare… La Mimma e il babbo stavano in Farmacia anche con la febbre alta: in qualche modo bisognava aiutare la gente che stava male.
Scampammo la morte quella volta. I bambini ce la fanno sempre con le pandemie, gli anziani e le donne incinte invece no. Solo in Italia le vittime furono 70.000; nel mondo qualche milione…
 
(Continua)

Sarsina negli anni '50 del secolo scorso (XX)


Rimini quando ero bambino

sabato, giugno 24, 2023

La tata ritrovata

8 anni!

Chi manderebbe oggi, ai nostri tempi, una bambina di 8 anni a lavorare, a dare una mano come “pratica” (si diceva così allora) in una farmacia?
Di là dalla strada, oltre la ferrovia del trenino che portava lo zolfo della Montecatini fino al mare e riportava su persone, unendo quella valle così povera e bellissima, che dopo la Guerra stava ripartendo, una piccola farmacia iniziava i propri passi.
Intuizione geniale di un giovane laureato che aveva sposato una ragazza del luogo, orfana di entrambi i genitori, qualche anno dopo la prima disastrosa guerra cui era seguita un’epidemia che si ricorda ancora, la terribile “spagnola”.
Gli uomini sono così, ripartono sempre, non stanno mai buoni, nel bene e nel male, li spinge una speranza inspiegabile, sempre tesi fra la distruzione e la ricostruzione.
Che strana bestiolina c’è al mondo!
 
La casa di questa bambina era proprio di fronte, in un vicolo stretto; bastava attraversare la strada. Una lunga scala ripida conduceva all’appartamento.
8 anni ed una voglia di vivere e di fare impressionante, un’intelligenza viva, aperta, determinata.
Tutto scorreva limpido, piano, quotidiano. C’era ancora chi faceva la fame e chi stava bene. Il dottore era uno di questi ultimi; la moglie bellissima, gli amici, i viaggi e le vacanze, le avventure, la casa e perfino la Topolino. “L’Angelina è andata a stare bene” si diceva. L’Angelina era la moglie del dottore e, dopo un anno di matrimonio, diciamo dopo poco più di nove mesi, era nato anche l’erede, cui tutti facevano le meraviglie. Capita: i bambini sono belli dappertutto…e ci vogliono, guai alla casa senza bambini! E dopo poco, zac…il cadetto! Nel caso più triste, la stirpe può sempre continuare e il nome passare alla nuova generazione.
“Non vi bastavo io?!” commentò allora il “princeps” benché di soli 2 anni e mezzo…
Il cadetto rischiò di brutto e solo un medico tedesco, amico del nonno, medico anch’egli, suggerì una cura sperimentale che ebbe successo: prelievo del sangue materno e inoculazione dello stesso nel figlio per via intramuscolare. Il cadetto guarì.
 
La Mimma, la bambina di 8 anni che stava crescendo, fu nominata bambinaia, nelle famiglie nobili si sarebbe detta balia o governante. La bambina lavorava e portava i soldi a casa e diventava indipendente anzi tempo, un po’ come la Lesly, la ragazzina che ha salvato i suoi fratelli nella jungla della Colombia poco tempo fa.
Mimma faceva tutto, farmacia, casa e bambini.
Come una signorina, come una sorella maggiore, una mamma.
 
Le guerre, si sa, non finiscono con il tacere delle armi, lasciano strascichi e ferite quasi insanabili. Fu così che il dottore dovette abbandonare tutto, casa, farmacia, paese e andare altrove. “Profugo” anche lui, come chi era subentrato a lui venendo da Pola. “Dura lex sed lex” dicevano gli antichi. La Legge è legge e non guarda in faccia a nessuno. Un altro paese, altra gente, lontano (per quei tempi) e si ricomincia.
La Mimma li seguì. In fondo era anche la sua famiglia, perché a quei tempi, il lavoro comprendeva l’affezione. Dava da vivere, ma era anche un rapporto, un compito, un affetto e una dedizione.
 
“Esule” la famiglia, “esule” la ragazzina. Cresceva, si faceva bellina; ma era pur sempre una bambina.
Il “principe” ne era perdutamente innamorato: era anche il più grande dei due e ne capiva di più, per forza naturale. Il dottore non ne poteva più fare a meno in farmacia: essendo lei intelligente e vivace, sostituiva quasi una dottoressa.
Era una “farmacista” venuta su a bottega, anche senza studi e senza esami.
Era una donna di casa attenta e premurosa, essendo la signora del dottore una donna energica e un po’ dura. Era una babysitter di valore perché amava, ricambiata, i due marmocchi.
 
Da lontano si sente di più la propria famiglia, i fratelli e le sorelle.
“Dottore, vorrei andare un po’ di tempo a casa mia” Non c’erano ferie pagate allora.
E i bambini volevano seguirla. 70 chilometri per chi non ha mezzi erano una bella impresa.
Un’ora e mezzo di curve in corriera (autobus per i bambini di oggi), il treno da Cesena a Rimini e la corriera (autobus) fino al paese natio non sono una sciocchezza…a 15 anni con due bambini piccoli dietro…
Chi li manderebbe oggi? Eppure…
La casa era piccola e le ristrettezze grandi. Mimma e i due bambini dormivano insieme sul materasso di foglie di granturco; ma com’erano felici!
Felici. La Mimma era la felicità.
 
La mamma, la signora del dottore, si era ammalata presto: oggi si parla di depressione post partum e di sindrome bipolare. Il dottore aveva “nemici”, non vedeva bene e ormai non poteva stare da solo in farmacia. Come sempre c’era gente che gli voleva bene e gente che non aspettava altro per approfittarsene. La signora ne soffriva molto e pregava, ma la sua malattia procedeva.
La Mimma era il punto fermo, il cardine di quei bambini, la sorella più grande, la mamma, l’amica, la “morosa”.
Li portava a passeggio, li vestiva, comperava loro i vestiti e le scarpe, preparava da mangiare, li seguiva in vacanza dal nonno, al mare. Li amava.
Erano i tempi in cui si andava ancora al fiume per fare il bucato. A piedi, lungo il sentiero scosceso, oltre la siepe fino al greto sassoso. Le ragazze lavavano e cantavano, i bambini giocavano nell’acqua bassa e facevano il bagno.
La felicità è una cosa semplice: le cose normali e un affetto infinito, segno di infinito.
La vita in un po’ d’acqua e nel canto delle ragazze, la risalita come anatroccoli dietro una ragazza che ti ama coi panni umidi sottobraccio e il ritorno a casa.
 
La sorellina bellissima, uno “squizzo” lungo così, sotto il lenzuolo, di fianco alla mamma. È arrivata un bellissimo giorno d’inverno. Il 1 febbraio. La neve. Il babbo venne a prenderci. Per mano, uno di qua e uno di là, affondati nella neve. Eccola! Bellissima! Sarebbe diventata uno schianto di ragazza a suo tempo e contesa da molti, riccia e scura, morettina abbronzata fin dalla nascita, il miglior fiore della nostra stirpe “sudista”.
E tre, adesso sono tre…e la casa, la farmacia e la signora che sta male…
La Mimma è di pura razza romagnola: non ha paura di niente…
 
“La Mimma va via, si sposa con un carabiniere”. Il primo tradimento, l’abbandono, la gelosia covata per anni verso un estraneo che ti porta via tutto. Chi è quel carabiniere, dov’è la Mimma, la mia Mimma?!
 
Una vita intera passata a domandarselo. Perché? È dura una vita passata nell’attesa, senza sapere il motivo e il luogo di un’assenza. Come ha potuto?
 
Una telefonata, un ricordo. A 80 anni succede.
“Dove sono finiti quei bambini?”
La morte di un fratello, di una sorella e l’altra che sta male.
Le rondini tornano sempre al loro nido.
“Francesco, sono la Mimma”.
La Maddalena deve aver provato lo stesso stupore davanti a Gesù risorto. Credeva di averlo perso per sempre (quando uno muore è finito, si pensa).
“Mimma!” “Sono sempre stato geloso di quel carabiniere che ti ha portato via”
“No, non è stato lui”
 
Quel giorno la farmacia doveva essere aperta e la signora le aveva ordinato di provvedere. La risposta un po’ brusca aveva irritato la signora…le aveva scagliato addosso il ferro da stiro, andato fortunatamente a vuoto. Il cognato carabiniere a Novafeltria era venuto a prendere la Mimma in Vespa e l’aveva portata via. Non era più il caso che la ragazzina stesse lì. La signora stava male. E la Mimma, a malincuore, l’aveva dovuto seguire e i bambini…orfani.
 
Pace fatta. Racconti affettuosi, richiami alla memoria, telefonate.
La tata è ritrovata!
 
Arezzo. Di là dai monti. Un appennino in mezzo e tanta famigliarità. Il viaggio, l’indirizzo, la casa, l‘ingresso…
La Mimma ci aspetta sulle scale. La prima è la Rosaria. Francesco è quello più desiderato: era il più grande. Il cadetto è in America, il dottore che ha sostituito il dottore. Ma qui nessuno ha titoli accademici. Solo l’affetto.
Sulla porta il Carabiniere incolpevole che non l’ha portata via, il marito, giovanissimo, 91enne, lucido, accogliente, cordiale. Massimo, il marito della Rosy, ci ha accompagnato rinunciando agli impegni. Il pranzo, la tavola apparecchiata di tutto punto con due bicchieri, uno per l’acqua e il calice per il vino, la tovaglia bella, il sugo coi piselli e le tagliatelle buone che mai, la carne, le erbe, le parole, la casa semplice e pulita, la figlia molto bella che lavora in ospedale e abita al quarto piano sopra di loro.
Gli abbracci, gli sguardi, le tante parole, l’affetto.
 
Siamo tornati a casa!
La Tata è stata ritrovata!
Siano rese grazie a Dio.
Tutto si ricompone














lunedì, aprile 03, 2023

La pagnotta di Pasqua

Che bella giornata di sole stamattina! È Primavera, ma fa freddo.
La tramontana alza le onde del mare, che bianche di schiuma, s'infrangono rumorose sulla spiaggia. Vicina passa la ferrovia e corrono i treni per chissadove. Due ville abbandonate visitate solo da edere rampicanti e finestre murate con qualche palazzina abitata e vecchi hotel in dissoluzione sono le vicine della "Struttura", che pure si trova a due passi dal mare dove ferve la vita estiva e passeggiano le ragazze incantevoli di altri lidi.

Il sole brilla su tutto, ma il vento consiglia di stare dentro. Per oggi.
 
I ragazzi del '48 (uno del '49) hanno deciso. Oggi si va a trovare il Maestro.
Cosa mai potrà fare un maestro abruzzese di 98 anni? Come lo troveremo? Ci riconoscerà?
 
La Casa di Riposo (CRA) è in una piccola via a mare della ferrovia, la stessa che taglia in due una splendida città di mare come Rimini. La casa accoglie tante persone anziane, chi da solo, chi affidato dai figli, donne un tempo note, belle ora non più. Il tempo lascia il segno su tutti.
 
Due da Sarsina, uno da Imola, un riminese oriundo sarsinate… e una pagnotta, una bella pagnotta, di quelle che hanno arricchito da sempre la mensa pasquale di ogni cittadino della capitale degli Umbri antichi. Famosa e desiderata, se una signora in carrozzina ci tiene, presentandosi come un ex-cancelliere del Tribunale, a farsi avanti e reclamare la sua quasi "sarsinità" dicendosi di Cesena.
Per tutta la durata della visita la signora chiederà a gran voce la sua fetta di pagnotta.
 
"Per favore, venite con me, di sotto, in Palestra. Il vostro maestro è lì, a fare terapia", ci guida un’assistente in divisa. Giampiero per primo, Francesco dietro di lui, entrano dalla porta d'ingresso a pianterreno. "Guarda, è là".
Baldanzoso e bene eretto, un po' dimagrito, ma sempre curioso nello sguardo, il Maestro sta camminando fra le parallele secondo il compito assegnatogli dal fisioterapista.
Si volta, ci guarda e sorride.
"Maestro!" Due lacrime commosse corrono accennate dagli occhi lungo il naso.
Giampiero si toglie il cappello. Un maestro è sempre il Maestro.
Poco dopo giungono due amici riminesi, Eraldo e Ido ed ecco la compagnia è completa: con le doverose mascherine si aggiungono Fabrizio e Tobia, recando la pagnotta.
 
È Pasqua. La 98^ Pasqua per il Maestro, solo la 75^ per noi. Ci sediamo in fila, davanti a lui in carrozzina. E corrono i ricordi...di gente vissuta, vivente e chissà. La memoria del Maestro corre più veloce della nostra e più precisa e le case di allora, le cose passate, le gioie, i dolori e gli amori. 
Cantiamo una vecchia canzone:
 
Vecchio scarpone
Quanto tempo è passato
Quanti ricordi fai rivivere tu
Quante canzoni sul tuo passo ho cantato
Che non scordo più

Lassù fra le bianche cime
Di nevi eterne immacolate al sol
Cogliemmo le stelle alpine
Per farne dono ad un lontano amor

Cantiamo, ridiamo, sorridiamo, c’interroga e cita in Latino, ci sollecita, ci urge “Tu eri il più bravo e tu il birichino… ricordo tuo padre… e la bidella? Chi la ricorda? Cosa fai? E tu, dove sei?...

Corre veloce il tempo, non sembra vero. Eravamo bambini ed ora...
Il Maestro è sempre lì, sembra rinato. Vediamo un “vecchio”, ma è sempre lui. Ci tratta così, da figli, rispettosamente da figli, cordialmente, fermamente da figli.
Ci sentiamo ancora piccoli, bisognosi di chi adesso ha più bisogno di noi. Noi camminiamo, lui in carrozzina. Lui la mente lucida con qualche piccola mancanza, noi uomini maturi che possiamo ancora guidare un’auto. Uomini.

I due amici riminesi, vengono ogni settimana a trovarlo e insieme leggono i Promessi Sposi. Gli fanno compagnia costante: sono di una stessa fraternità. È bello essere cristiani.

Corre il tempo, passano le ore e nemmeno ci accorgiamo. Siamo contenti di stare insieme. \“Arrivederci, Maestro, alla prossima volta, che non sarà l’ultima” dice Tobia, quando ormai è ora di pranzo. Il Maestro sorride e alza l’indice verso l’alto: a Lui. Lui sa e vuole. Lui, che ci ama, decide.

Fuori il sole è più caldo e la tramontana sembra aver abbandonato la sua forza. Un piccolo aperitivo, un saluto cordiale, un invito e un arrivederci a Sarsina, al paese e al luogo che ha visto nascere, poco dopo la Guerra, un’amicizia e un rispetto oggi ai più sconosciuto, quando bambini pendevamo dalle labbra e dal cuore di questo giovane Maestro abruzzese che ci introduceva alla vita con sua moglie maestra e divenimmo parte della sua famiglia da allora, misteriosamente, per sempre.