lunedì, luglio 15, 2013

La mitica III^ B

Se ne stava seduto lì, da ore, sugli scalini del faro, in cima al molo, nel posto che lui tanto amava, da anni, dove la terra finisce unendosi al mare e al cielo. Più oltre solo i pesci ed i gabbiani, lo sciabordio delle onde e qualche nuvola oziosa, ferma lì ad aspettare chissà chi.
Era giunto fino al faro non si sa come, piano, piano, col suo bastone, compagno inseparabile: non avrebbe più potuto stare in piedi senza di lui. Ormai aveva perso tutto, non sentiva più e, quasi cieco, si lasciava accarezzare dal sole, senza vedere più in là di qualche passo di lumaca. Nulla. Solo come un passero d’inverno, aspettava e commosso ringraziava.
Dentro aveva il mondo e tutto ciò che lo aveva riempito nel corso degli anni.
Un giovane gabbiano impertinente o forse solamente curioso, gli si avvicinava spesso, affascinato da quella statua di sale immobile nell’ombra del tramonto che avanzava. Non era più tempo che l’alba lo vedesse con l’aria pungente e frizzantina. I giovani, loro sì, non hanno paura di niente, non temono il freddo, il vento, l’acqua e la bufera, non temono l’amore e la fatica.
Agenore, il vecchio bidello, ripassava spesso le loro facce, ripassava e studiava, li guardava uno ad uno, li riportava in vita: ne aveva visti tanti! Piccoli, appena usciti dalle braccia delle maestre, si stupiva nel vederli crescere e diventare grandi; poi lasciarlo e, ognuno per la sua strada, crescere crescere, mentre lui si piegava sempre più.
Quanti, quanti ne aveva contemplati, consolati, aiutati, ascoltati, sgridati, difesi, godendo in cuor suo per il regalo ricevuto in loro, dopo una vita passata a curare gente malata malato lui stesso!
La ragazzina bellina bellina che si truccava già in seconda, il ragazzino che nessuno voleva come amico perché era brutto e sgraziato, gli occhi sgranati della biondina mentre gli faceva gli auguri di compleanno e quella che entrava tutti i giorni a scuola cantando, il secchione che amava la scuola e chi gli aveva promesso di diventare un grande matematico. Nel lento mutare del tempo, nello spazio compreso fra il sole d’autunno e quello d’estate, tutti si trasformavano sotto i suoi occhi restando se stessi e trasformandosi insieme.
Che meraviglia!
Lui li guardava, li contemplava, con gli occhi che si bagnavano spesso, si aprivano a nuova meraviglia o si chiudevano pensando al loro destino, come un padre, che pur non aveva figli. Ne aveva chiesti dodici, da ragazzo, la maggior parte femmine ed ora, senza merito alcuno, gliene erano dati a centinaia.
Così piangeva, gli occhi semichiusi, mentre il gabbiano ignaro lo fissava, senza capire nulla, forse aspettandosi un po’ di cibo, lui, che vola libero ed elegante dietro le navi, ma non è mai stato bidello e mai lo sarà.
Vedeva - e come vedeva! – nel suo mondo ricco, che fuori non appariva e non si svelava.
Rideva da solo al pensiero di quel ragazzino che gli aveva detto: “Ma perché si chiama corridoio, se non si può correre?” o di quella ragazzina che gli aveva chiesto: “Tu esattamente cosa fai in questa scuola?” e, senza aspettare la risposta, sorpresa gli aveva detto: “Ma tu non fai nulla!” ricevendone in cambio un bel “Brava! Sei la prima ad averlo capito!” e di quell’altra che l’aveva ammonito: “Sei un bidello, ma che non pulisce”. Una volta qualcuna aveva tentato di corromperlo: “Agenore, vieni nella mia classe e di’ alla Prof che hai bisogno del mio aiuto, così esco…” ed ora chissà dov’era, forse a insegnare danza a Londra, forse a ballare a San Pietroburgo.
Agenore aveva un debole per le ragazzine: gli potevano chiedere tutto, le ascoltava pazientemente, si lasciava “fregare” da loro, le difendeva dai maschi, le giustificava davanti ai professori; avrebbe preso anche le botte senza dire nulla, non le accusava mai davanti alla Preside. Lui avrebbe voluto tante figlie femmine!
Amava tutti, tutti erano suoi amici personali, dai piccoli smarriti dei primi giorni di scuola ai grandi “scafati” di terza, che ormai erano fuori da ogni controllo, perché si sentivano grandi  e indipendenti. Li guardava e ripensava a sé, quando anche lui aveva passato le stesse cose, gli stessi drammi, la felicità che non si contiene e il dolore che si affaccia prepotente, inaspettato.
Che grazia aveva avuto!
Sfogliava e risfogliava queste pagine, ormai gialle e ingiallite; vedeva e rivedeva quei volti - chissà dove saranno? – ma quando arrivava a quel capitolo, ecco, piangeva, le lacrime correvano già lente via via più spesse, scendevano a mare e lo addolcivano, salate nel sale più intenso.
La mitica III B!
Presago e testimone, quell’anno si era chiuso così, col nero nubifragio, che aveva sconvolto la loro bella città e li aveva visti l’ultima volta insieme. Quella sera in campagna, coi genitori e gl’insegnanti, bambini ancora ed ormai grandi, avevano giocato, parlato insieme e poi scherzato; le ragazze vestite eleganti - i ragazzi giocavano a pallone - li guardavano sottecchi e un po’ sprezzanti; poi a nascondino correvano qua e là, nel buio cercandosi, svelando e nascondendo ciò che restava della loro infanzia. Che belli! E giù come la pioggia correvano le lacrime insieme al riso. Chi disvelò il suo amore e fu a tutti chiaro, chi tacendo in silenzio e anelando, chi guardando invidioso, chi giocando.
Come ruscelli da colline diverse erano arrivati in quella scuola in riva al mare, smarriti i primi giorni, poi via via audaci e confidenti. Ce n’era uno che non stava mai fermo, girava fra i banchi come una trottola, toccando or questo or quello, mai sazio di avventure; c’era la ragazzina piccola piccola, che avresti detto uscita da una favola e invece era lì con i suoi occhi grandi, ll biondo alto che si vantava dei capelli lunghi, la ragazzona (già allora) che ti guardava coi suoi occhi chiari e le belline degli ultimi banchi e quello sempre fuori dalla porta, la clown della classe e le secchione. C’erano le ballerine e i giocatori di calcio, le cavallerizze ed uno, dicasi uno, che studiava: sapeva tutto e non giocava a pallone. Ad ogni anno che passava, come si conviene, crescevano e cambiavano restando se stessi, i maschi continuavano a giocare a pallone, le femmine parlavano parlavano. Crescevano e facevano impazzire i professori. Tutti geni e tutti “vagabondi”: una classe davvero speciale. Uno due tre ed eccoli all’esame. Il tempo fugge come l’ombra e non indugia. I bimbi crescono, le mamme imbiancano – diceva un’antica canzone. Crescevano e fiorivano, sbocciavano….ed ora “dove saranno?” si chiedeva il vecchio bidello, la cui bellezza non sfioriva nonostante il suo corpo si consumasse. La lungocrinita amante dei cavalli, con quella coda che la faceva amazzone più che mai, con la voce acuta e forte e quegli occhi volitivi e teneri… Mamma? Artista? La pazzerella, che pazza non era, con un cuore ed una mente da fare invidia ad Einstein? Se n’era andata via così, incurante dei pianti di Agenore, che l’avrebbe voluta sempre con sé. Gli aveva promesso “Verrò a trovarti”. Aveva mantenuto la promessa e lui l’aveva aspettata ogni giorno e poi…l’aveva vista alla RAI ed in teatro…chissà erano sogni o realtà?
Una nave uscì dal porto, si confondeva fra le tante ombre, la riconobbe dalla sirena. Pensò ai due ragazzi che erano andati a fare i cuochi quel giorno d’autunno alla ripresa degli studi. Pensò a loro, smarriti e timorosi, sprezzanti per coprire la loro piccola paura dell’ignoto. Erano ora degli chef? Viaggiavano sulle navi o gestivano un ristorante a Piazza di Spagna? Avevano imparato un po’ d’inglese e di spagnolo? Si erano decisi a studiare o viaggiavano ancora fra le loro fantasie e le difficoltà della vita? Erano belli, come tutti. Belli, anche se non ci credevano. Il russo e il brasiliano si erano incontrati sui campi e se le erano suonate come si deve…a calcio? E il piccolo lamentoso, tanto simpatico e amante delle ragazze, onorava adesso la Nazionale Azzurra o si era perso dietro qualche sottana finendo per allenare il Corpolò Footbal Club?  Qualche voce lo diceva Monsignore a Roma… E quello che per anni gli parlava nel corridoio, facendosi buttare fuori dai professori solo per poter fare compagnia al povero vecchio bidello? E l’artista disegnatore di moda che disdegnava il gioco del pallone per poter dare consigli alle ragazze? Chissà se ora era a capo di una “Maison” a Parigi o a Milano?
Come li aveva guardati, ogni giorno, nei corridoi o nel cortile, desiderando per loro tutta la felicità per cui erano nati!
Tutti, come è giusto, se n’erano andati un giorno, alla fine della loro storia di scuola, chi al Liceo – e ancora li aveva visti crescere – chi per altre strade, crescendo e diventando grandi.

Il giovane gabbiano curioso era volato via, le barche uscivano dal porto, piccole e grandi e la città alle sue spalle continuava a vivere. Agenore si alzò prendendo il bastone e s’incamminò. Un bambino col lecca-lecca lo guardava pensoso, con la mano stretta in quella della mamma. Agenore nemmeno se ne accorse, vedeva appena un vago cespuglio di capelli ricci. Strascicava i suoi piedi e inciampando compitava i loro nomi, uno ad uno e tacito in silenzio ringraziava.