domenica, settembre 03, 2017

Il figlio della Martina

Ci fu un tempo in cui le donne che dovevano lavorare affidavano i bambini alle suore, nell’asilo o, già grandicelli, alla loro cura dopo la scuola per il tempo necessario all’uscita dal loro lavoro. Le infermiere sposate in modo particolare.
Fu così che Mimmo imparò l’arte di lavorare a maglia coi ferri. 
Un maschio. Che problema c’è?
Se ne vantava spesso, divertito e orgoglioso, lui, che aveva operato in Iraq, fra i guerrieri curdi, al tempo della prima guerra del Golfo, con gli uomini armati a fare da sentinella, mentre i chirurghi cercavano di ricucire ferite e tamponare emorragie di povera gente e di bambini incappati in bombe e bombardamenti.
Mimmo amava i bambini. Come li amava!
Li amava in ogni luogo, divertendo col giochetto del pollice una orfana bambina mongoloide o tentando di addormentarli con l’anestesia. Ne aveva salvata anche una data per spacciata dai dottori ed ora diventata dottoressa. Dei bambini.

Mimmo aveva tre bambini. Due femmine e un maschio. Bellissime, giocose, felici le femmine più l’erede ancora piccolissimo ed una moglie conquistata con la simpatia e la tenacia, che lo contraddistinguevano. Tenace e deciso al punto da essere andato a Parigi in bicicletta, con amici, attraversando le Alpi e le dogane, da Santarcangelo, in tempi di strade bianche e pedalare…
Tenace da diventare medico da figlio dell’infermiera, quando a studiare erano i figli dei signori. Da realizzare il suo sogno di lavorare a Rimini, in Ospedale e sposarsi e farsi una villa e andare in vacanza e a sciare.
Fino al giorno in cui tutto cambiò, in un momento, alla fine di un tunnel, un semplice sottopassaggio ferroviario.
Due bambine, una corsa per mano, un’auto ed uno schianto. Le sue bambine.
Lui stesso le aveva ricevute, essendo di turno, e le aveva mandate a Bologna perché si salvassero. Tutto vano.
Due tombe vicine e molte preghiere. Nella sua terra natale, fra tanti bambini e tanti amici.
E via…pedalare…

Come un seme caduto nel campo, nel buio della terra, qualcosa spuntò. Nuovi amici, nuova vita, nuova accoglienza, nuovi bambini. Tanti bambini. Un asilo, una scuola, tanti asili e tante scuole e tanti ragazzi, tante ragazze.
Li seguiva nelle vacanze, li aiutava in tutti i modi.
Dolce, tenero, ilare o arrabbiato. 
Sempre "poca acqua nel vino" (ed era astemio!). 
Sempre attento, sempre a disposizione.

“Non è bene che l’uomo sia solo.” Simone ebbe una sorella, una nuova sorella. Chissà se sarebbe nata la dottoressa dei denti dei bambini? Tutti se lo domandano. E fu Lucia. Doveva nascere, perché nel nome si rinnovasse di poi anche il ricordo della nonna infermiera.
Tutto rinasce nella vita, specie se accolta, curata, accudita, rinnovata.

Sua moglie fu la molla, risorse per prima.
“Ricorda che tutte le mattine, quando metti i piedi giù dal letto, c’è un Altro che ama i tuoi figli più di quanto li ami tu”. Quattro figli per molti figli.

E fu la scuola.

La casa di Mimmo, la villetta sull’Ausa, si aprì al mondo: da quei quattro disgraziati che volevano diventare preti, agli amici preti, alle donne che non avevano nessuno, alle mamme, alle maestre, a quel sant’uomo che fu il Gius, a don Giancarlo e alla nonna Maddalena, che andarono ad abitare a casa sua, in quello che doveva essere il suo ambulatorio privato e non lo fu mai.
Tutta la vita cambiata, tutti suoi sogni infranti, tutto ridonato.
Ed il suo amico, il suo grande amico Antonio, medico agopuntore, morto troppo presto.
E le partite di calcio al seguito della squadra del Rimini e le partite di briscola per lunghi pomeriggi con gli amici imprenditori.
I viaggi per il mondo, il Papa santo, che aveva assistito quando era venuto a Rimini e Cesena.
Quante persone ha aiutato il figlio della Martina!
Conosciute, sconosciute, famose e poverette.

La pensione, la malattia.
Il bastone e la carrozzina per chi aveva pedalato 1200 Km, volato dal Brasile al Sudafrica, attraversato il deserto giordano in camionetta.

Il 3 settembre, il giorno della Festa della Repubblica della Libertà, Mimmo ha vinto la sua ultima corsa, quella che conta.

Il figlio della Martina sa fare la maglia, il figlio della Martina ha fatto tante cose, ha ottenuto il premio della sua lunga fatica. Ha ritrovato le sue bambine e la sua moglie.

Il figlio della Martina, il ragazzo che faceva i dispetti, che suonava i campanelli, che ci ha messo tutto l’impegno per riuscire e che lascia tutto qui, che amava i bambini e sapeva ascoltare gli anziani, che si arrabbiava ed era dolce, che voleva poca acqua nel vino, Mimmo, il grande dottore, ci aspetta tutti nella sua villa che non finisce più.

“Io so dove suonare il campanello” disse una volta un amico.
Tutti noi sappiamo dove suonare il campanello, carissimo Mimmo.
Salutami la Lella e le bambine. Salutami Antonio e tutti quanti.

“If you get there before I do, tell all my friends I’m coming too”



Ceccus

mercoledì, agosto 02, 2017

Batecca

I bambini, birichini, ridevano e scherzavano con Batecca. 
Gli davano da dire, si facevano avanti e poi scappavano via, quando lui fingeva di aprire il cancello dell'orto per inseguirli.
Correvano via urlando e schiamazzando, avvertendo tutti gli altri che stava arrivando Batecca.
Lui si divertiva, fingendo di arrabbiarsi. 
Qualcuno, i più coraggiosi, si avvicinavano per chiedergli scusa e lui li guardava e rideva con loro.
Batecca era il soprannome di suo nonno e lui, ormai più che nonno, lo portava ancora con onore.
Nessuno dei bambini sapeva che si chiamava Primo o Pino, come era conosciuto dai famigliari e dagli amici.
Primo era il vigile del Casale, dal Fondo al Ghetto, un vigile senza divisa. Camminava su e giù e conosceva tutti, più volte al giorno, entrava nei cantieri, guardava gli orti, controllava la strada e il traffico, attento a cosa succedeva.
Sedeva davanti alla chiesa o davanti a casa sua e interloquiva coi passanti conosciuti o sconosciuti, commentava, dava da dire alle spose; ma la sua amica di chiacchiere preferita era la Nella. 
La cercava, lei cedeva o si negava, parlavano e non si capivano e ognuno diceva che l'altro era sordo. Era bello vederli sotto gli alberi sulla panca di cemento ormai consunto dagli anni e dalle intemperie. 
Una coppia perfetta.
La vera coppia però, il vero unico amore di Primo era l'Elvira, che l'aveva assistito tutta la vita, compiendo quel "sì" detto a 16 anni. Sì a lui, ai vecchi di lui, ai fratelli di lui, come usava una volta, quando le spose giovani lasciavano la propria famiglia per entrare in quella del marito, con tutto quello che comportava: lavoro, fatica, servizio e figli.
Primo che aveva lasciato con lei la terra diventata troppo grande in collina per venire a lavorarne una più piccola in pianura.
Primo che era sempre andato in chiesa e qui, nel nuovo paese, era preso in giro dai compagni perché dava retta al prete. "Cus cl'ha det e prit a la Messa?" lo minchionavano e lui: "Che tci un pataca!" e dritto per la sua strada, sempre sincero e sempre rispettoso.
Ne aveva passate nella sua gioventù! In guerra, catturato dai tedeschi dopo l'8 settembre, era stato anche in Germania, mangiando bucce di patate e sperando, chissà, di poter tornare a casa. E ce l'aveva fatta. ,
"Non muoio neanche se mi ammazzano" diceva Guareschi e Primo, col suo buonumore era l'emblema vivente di quel paradosso. 
Magro spinto, quasi cadavere, era tornato e si era ripreso e aveva sposato l'Elvira, "che era sempre stata brava...solo da vecchia era diventata un po' birichina" diceva ridendo col suo sorriso a 32 denti, seduto sul divano con le gambe accavallate e lo sguardo sempre attento.
Poi il padrone del campo aveva venduto la terra a dei signori che facevano i mattoni, ponendo una condizione, che il suo "cappello d'oro poggiato sulla testa" (così esprimeva la sua stima per questo capofamiglia di lavoratori onesti) fosse assunto nella fornace che doveva essere costruita e lo fu. 
Il Primo contadino divenne un ottimo costruttore di mattoni e, mattone dopo mattone, tirò su anche la sua casa con un pezzo di terra da coltivare.
E l'Elvira sempre vicina, paziente, ospitale, attenta, servizievole come lo era stata da giovane, instancabile nelle pulizie degli uffici o nell'assistenza ai famigliari ammalati in vari ospedali.
Ogni mattina, la prima passeggiata di Primo era alla chiesa vicino casa, un pater, qualche preghiera, qualche parola se c'era qualcuno e via, per l'impegno quotidiano su e giù per la strada, le mani intrecciate dietro la schiena, il pensiero e l'occhio sempre rivolto attorno a sé.
E le chiacchierate all'ombra con la Nella, che non capiva niente...
E le parole con chi passava davanti a casa sua magari alle due del pomeriggio senza avere ancora mangiato. Un saluto e un sorriso cordiale sempre sul viso.
Poi un bel giorno la Nella lo aveva lasciato da solo e Primo non sapeva più con chi parlare e a chi dire: "T'an capesc gnent" mentre il tempo avanzava e i giorni passavano senz'acqua. 
Il prete continuava come sempre tutte le domeniche ad andare a casa sua a fare colazione, come tutti i parroci che aveva conosciuto. L'Elvira preparava il caffelatte con una brioche enorme mentre si  chiacchierava, si rideva e Primo faceva sentire la sua forza dando al malcapitato ospite il "morso del cavallo" sulla gamba o stringendo la mano con la morsa d'acciaio. E giù a ridere.
Arriva il caldo caldo e Primo non è più lui. 
Non mangia, non ha fame, esce poco, non vigila più e cade, una, due volte.
"im cema". Mi chiamano.
Pochi giorni, qualche flebo e Primo...
Il 2 agosto, il giorno del Perdono di Assisi. 
Tutto è compiuto.
La Nella e Primo ora chiacchierano senza offendersi, si capiscono come mai prima d'ora.
Aspetta l'Elvira, la fedele Elvira, quando sarà ora, la sua sposa per sempre.
Che bella avventura la vita!

sabato, gennaio 28, 2017

Nostra Signora delle foglie

Nei giorni della merla gli alberi sono spogli e infreddoliti. Solo le conifere, quelle con gli aghi, sono ancora vestiti. I rami si stendono verso il cielo per chiedere un po’ di sole e di caldo. Sanno, sentono la vita che stenta in attesa della nuova stagione di primavera. Le foglie verranno, ma ora…solo in Ospedale si sta al caldo.

Nella è una bambina che parla francese, perché è nata lì, da qualche parte e lì è andata a scuola. Ci fu un tempo in cui anche dall’Italia si emigrava, per il lavoro e per la famiglia. Nella non è francese, ma questa lingua dolce suona bene nella sua voce, gentile, discreta, raffinata.

Un bel giorno torna in Italia, si sposa, si è fatta grande. Nella lavora, i suoi figli, il marito, i bambini, la scuola. Da buona bidella non picchia i bambini, non li sgrida, non da punizioni per le loro birichinate. Dal suo piccolo villaggio, dal ghetto di poche case, corre ogni giorno in bicicletta verso la grande città del mare, distrutta dalla guerra, alla quale alcuni svizzeri hanno regalato una scuola per ricominciare. Nella sa spazzare, pulire, rassettare. Non insegna nulla, ma i bambini le vogliono bene come lei ne vuole a loro.

Muore il marito, Nella è sola. Passano gli anni e Nella li segue, come gli alberi che vivono nel boschetto della chiesa. Tutto passa, le gioie, i dolori, gli anni, i parroci, i rami si vestono e si svestono.

Nella ha un’amica del cuore. Abita proprio di fronte a lei, una Signora, in una casa grande, mentre lei vive in una casa piccola, raccolta con un piccolo orto e i figli vicino. La Signora della casa davanti la riceve volentieri, dolce, silenziosa. Ascolta le cose di Nella e la consola E’ una grande signora, che accetta l’amicizia confidente di Nella. Nella è vedova, alla Signora è morto il figlio tanto tempo fa. Si intendono, si aiutano, da donne, da buone vicine. Nella le tiene pulito il cortile, un grande cortile. Le toglie le foglie d’autunno e le cartacce dei ragazzi sfrontati e incoscienti che vengono a fare l’amore sugli scalini della villa. Il cortile è sempre aperto perché la Signora vuole così.

Quanti custodi sono passati! Nella li conosce tutti, con tutti ha avuto confidenza, tutti chiamando per nome, tutti rispettando.

Dalla sua piccola casetta, dal suo osservatorio, continua a fare la bidella, sorveglia chi entra e chi esce, chi si avvicina, con buone o cattive intenzioni, a quella villa così grande che accoglie tutti. La Signora non manda mai via nessuno, perfino i ladri, i vagabondi, i furbi, i giusti e gli ingiusti. La Signora ama i bambini e anche Nella, col suo cuore ballerino, fa così.

Nella pulisce le foglie e ansima un poco. Ogni giorno un po’ di più, nel caldo dell’estate, nel freddo dell’ultimo autunno. Fu per questo che un custode la chiamò scherzosamente “Nostra Signora delle foglie”. Era un custode bello, giovane, forte, che niente sembrava potesse spezzare eppure… fu l’ultimo che Nella salutò in un bel giorno di prima primavera, quando le foglie hanno già coperto i rami e i fiori fioriscono in mille colori. Nella allora passava molto tempo dalla Signora, perché quel custode era giovane e lei non riusciva a darsi pace: “Perché non io che sono già vecchia?”

Nella ora va a Messa tutte le sere nel suo vestito più bello, mentre il suo cuore batte sempre più piano, da povero pazzerello. Nella è in Ospedale. Il dottore ha voluto così, per farla riposare dopo tanto fare, tanta passione, tante foglie.

Nei giorni della merla, quando tutto il mondo sembra fermarsi sotto il gelo e il sole non scalda più, nel giorno caro alla Signora della casa davanti, di notte, nel silenzio, mentre tutti dormono, la Signora la manda a chiamare. Adesso vuole che stia sempre con Sé.
Nella esce, attraversa la strada. La porta è aperta. Il giovane custode l’accoglie e l’annuncia: “Nostra Signora delle foglie è arrivata!” La Signora si fa incontro. Nel suo dolce francese la saluta: “Je vous remercie beaucoup, Madame, enfin je vais vivre avec vous toujours”