martedì, ottobre 22, 2013

Caterina e i suoi capelli


Caterina e i suoi capelli

Il chirurgo si mise le mani nei capelli: un caso così disperato non l’aveva mai visto prima. Riprese in mano le immagini della Risonanza Magnetica. Intervenire su quel cervello in simili condizioni era al limite delle conoscenze e delle possibilità umane. Si fermò in silenzio, si aggiustò gli occhiali sulla fronte e si ravviò in capelli con un gesto tenero e deciso. Amava i suoi capelli; erano di un bel colore scuro, brillanti, lunghi. Li teneva sciolti o raccolti sulla nuca con una coda; quando operava erano tenuti ben fermi sotto la cuffia perché non le cadessero sugli occhi o sfiorassero il paziente su cui interveniva.

Le era bastata la visione di un film quando era ragazzina per prendere la decisone della sua vita. Si era messa a studiare, a cercare tutto ciò che parlasse di medicina, fino ad affrontare racconti e testi impegnativi, più grandi della sua età.

Giorno dopo giorno, anno dopo anno, pazientemente studiando anche cose che le interessavano poco pur di realizzare il suo sogno, era arrivata lì, davanti a quelle immagini, che stava analizzando e meditando. Più che immagini erano una persona, un bambino, unico superstite di una famiglia annientata da un incidente sull’autostrada che li riportava a casa dopo le vacanze.

Nelle sue mani e in quelle di Dio stava la vita di questo povero orfano. Vivere e morire, la distanza è minima, meno di un millimetro. Tutta la vita, fragile, è data e tolta in un battito di ciglia. Attimo per attimo, come una scommessa, tutto come in un sì o un no.

Era stata davvero dura prepararsi a quel compito: le passarono davanti gli anni di studio, i volti dei compagni di studio e quelli de professori, ripensò a sua mamma  a suo babbo, che l’avevano sostenuta ed ora non c’erano più, ai fratelli che amava, alle esperienze di lavoro in America, ai congressi, a chi l’amava  e con cui aveva messo su famiglia e ai suoi bambini.

Quel bambino era lì, come uno dei suoi, bisognoso di tutto.

Ebbe un brivido di freddo e di paura.

Pregò, come faceva da ragazza, quando, prima che iniziassero le lezioni, affidava la sua giornata a Dio insieme agli amici. Dirigeva lei la preghiera. Sembrava un gesto semplice, quasi banale, nel corridoio della scuola, fra risolini e impaccio quando si sbagliava qualche parola; eppure era cresciuta così.

Lo riconobbe, si coprì la faccia con le mani, si ravviò i capelli, sistemò gli occhiali sul naso e si rivolse alla Madonna. Fra donne ci si intende; certamente le avrebbe dato una mano per operare quel bambino e tentare una salvezza disperata.

Allegra era sempre stata e un po’ sfacciata, o meglio aperta, sapeva osare, era capace di chiedere, come quella volta che le era piaciuto tanto il pile del bidello e glielo aveva domandato più volte con insistenza in regalo e ancora glielo chiedeva. Che risate! Questo suo modo aperto, quasi sfrontato, era stato sempre la sua arma vincente, la faceva stare davanti alla vita e alle difficoltà con una determinazione positiva, non cedendo mai, anche nei momenti più difficili o tristi.

Così aveva conquistato quel bel ragazzo che aveva incontrato sui banchi dell’Università; erano diventati medici insieme, poi sposi. Lui era pediatra, lei aveva preferito la chirurgia fino a quella difficilissima del cervello, come il suo eroe, un medico nero americano visto in un film l’ultimo anno delle Medie nell’Aula Magna della scuola in riva al mare.

Si ritirò nella sua stanzetta d’ospedale. Dormì un sonno sereno.

Entrò in sala operatoria riposata, con fare deciso, capelli al vento, dando ordini precisi - le era sempre piaciuto comandare come per nascondere la sua timidezza -; le infermiere le ubbidivano, i colleghi assistenti presero posizione. Le ultime parole e gli ultimi preparativi prima di avvicinarsi al piccolo paziente.

Camice, guanti, cuffia, dopo essersi lavati accuratamente e aver nascosto i capelli profumati.

Un segno di croce, il bisturi in mano e…un taglio netto, deciso, fermo e determinato. Si inizia. La scatola cranica aperta e quella materia tanto preziosa e delicatissima che regola tutti i nostri atti e sensibilità, fino all’umore. Dov’è l’anima? Si trovò davanti una devastazione incredibile; per un attimo ebbe la tentazione di mollare tutto, di chiudere, di piangere magari – si sentiva così fragile e inadeguata – poi una strana calma la prese, come se qualcuno operasse con lei; le sue mani correvano qua e là quasi portate e la sua mente era lucida, intelligente, serena, aperta.

Fuori non aspettava nessuno, nessun genitore ansioso, nessun fratello o sorella. Lei lo adottò, lì, mentre tagliava e suturava; nel suo cuore era suo, come i suoi figli.

Le ore passarono, non ebbe nemmeno fame né sete. L’infermiera le asciugava il sudore. Senza tempo né stanchezza. Chissà se sarebbe sopravvissuto. Chiese che così fosse, non tanto per la sua fama – non le era mai interessata – quanto per quel bambino, che doveva essere morto ed era stato affidato a lei perché vivesse…

Il giorno seguente e poi le notti andò spesso a vederlo, quella piccola testa fasciata, devastata e rinata. In silenzio, come fanno le mamme più che i dottori, a vegliare, a guardare, a cercare di scorgere i segni della vita che rinasce.

Quei bei capelli mori che avevano fatto innamorare suo marito si chinavano leggeri a sfiorare quel piccolo volto, quegli occhi ancora chiusi, quel respiro leggero.

Giorni e giorni, sperando, chiedendo.

Davanti allo specchio si ammirò, toccandosi i capelli, ravviandoli, poi, come al solito, raccogliendoli ordinati e puliti dietro la nuca. Suo marito le si avvicinò, toccandoglieli e gustando il loro profumo, la baciò e la salutò. Ora erano bianchi, ma sempre belli. Era diventata nonna, di tanti nipoti, suoi e “suoi”: tutti i bambini che aveva curato, salvati o perduti.

Tutti suoi.

I suoi capelli l’avevano sempre seguita, mori, belli, morbidi e brillanti da giovane, poi via via insieme ai suoi anni sempre più chiari…

“Chissà come sono i nostri capelli in Paradiso?!” si chiese.

Sorrise ed uscì, mano nella mano con il suo ultimo nipotino.

sabato, settembre 28, 2013

Gli amici del Destino


Sardegna 2013

Un simpatico signore con i baffi in mutandini e maglietta a righe orizzontali bianche e blu mi dà il buongiorno in non so che lingua. Bubi dorme ancora; anche il sole si sveglia tardi in Sardegna. Il panorama è silenzioso come il mare proprio sotto di noi; la macchia mediterranea mi accoglie col suo fascino discreto: non ci sono tanti alberi alti a Baia Sardinia. Siamo ospiti del nostro amico Bongio.

Si parte. Un’altra alba qualche giorno fa, un altro sole, lo stesso sole ci aveva visto riempire di zaini e valigie l’auto che fu già di don Giancarlo. E via giù per l’autostrada verso un porto lontano. Fano, Gubbio, Terni, Viterbo e l’antico sempre attuale porto di Roma. Siamo a Civitavecchia. Il traghetto per Olbia ci attende già da ore, ma non è lui, un altro lo sostituisce, più piccolo, più lento, più… Qualcuno si lamenta, qualcuno obietta e scende con tutta la famiglia. Si parte, non si parte, non si sa. Quando e come arriveremo? Misteri italiani. Un rimorchiatore si muove, si avvicina, una pilotina si affianca. Piano piano alle 5 verso il tramonto lo scafo si muove. Gli orari proposti erano 15,30 con arrivo a Olbia alle 20.
Giungemmo alfin. La notte ci accoglie; vediamo le luci della costa sarda, sbarchiamo che sono quasi e 2 del nuovo giorno. Domani è martedì. Bubi non ha fatto una piega. Si è accucciato sulla poltrona sul ponte in alto, ha chiuso gli occhi ed ha dormito. Col mare un po’ increspato.
Chi percorre mai la strada della Costa Smeralda alle 3 di notte? Nel silenzio della notte nel buio senza stelle fra mille curve e deviazioni giungiamo alla meta. Stanchi e sfiniti ci accoglie un signore gentile, un concierge professionale che ci accompagna fino alla porta della nostra stanza. Un po’ di frutta, un breve passaggio in bagno e… il sole del nuovo giorno ci sveglia: non abbiamo chiuso nemmeno le imposte. Rintronati, dopo una breve preghiera, ci avviamo a colazione.

La casa di vacanze dei nostri amici, la famiglia Mescolini, è piccola, con una terrazza che guarda il mare. La prima mattina passa così, su una piccola spiaggetta riparata dal vento quanto basta e giochiamo a bocce a perdifiato. Nel pomeriggio pioverà e così accade. Nuvole passeggere che il vento porterà via dicono l’indomani.

Bongio c’invita a cena nel ristorante più pregiato del suo già pregiato albergo. Una cena fra amici, serviti di tutto punto dal pane al vino, che scorre bianco pregiato. Si parla di noi, di ciò che è appena stato e degli anni che ci hanno visto ragazzi e dei figli ancora piccoli allora. Paolo, lo skipper, accompagna gente a pescare o a girare per mare. Ha unito la sua passione con il lavoro, così mentre guadagna gode. Marco e Cristina con quattro ragazzi un più bello dell’altro, dal grande Francesco alla piccola Matlde, bionda fatina fatata dai lunghi capelli sciolti per l’occasione, mentre l’Italia conquista il Brasile con un po’ di fatica. Vinciamo, andremo ai mondiali, di calcio, l’anno che verrà.

Il silenzio di questi posti è incantevole, come il panorama: il vento è il suono più forte; perfino le onde, che si frangono sugli scogli o si appoggiano sulla spiaggia, lo fanno con discrezione, mentre il mare non occupa tutto l’orizzonte, qua e là alcuni scoglio isole permettono allo sguardo di riposare e vagare curioso.

Uno scoglio sul mare è il luogo adatto per celebrare la Messa. Non siamo soli. Da uno solo tutto e tutto parla di uno solo. Tutti cercano la felicità; ad alcuni è data per tutti di conoscere dove essa si trova. Gesti semplici, elementari, nella loro forma. Senza un po’ d’acqua nemmeno il Mistero può riaccadere, mostrare tutta la sua potenza e ricchezza. Pochi amici, il cielo, il mare, le rocce e il Mistero che fa tutto. Il senso del sole che tramonta e del giorno che se ne va. Ed è subito sera. Scorre veloce questo tempo. Si dorme ed ecco di nuovo un altro mattino. La sera ci ha visto guardare la storia del Messico schiavo e la lotta per la libertà del popolo cristiano oppresso dall’ideologia violenta di Calles. Ci sono martiri i ogni tempo. Solo Cristo rende liberi, allora come adesso. I soliti gesti mattutini ci trovano pronti e ci preparano alla battaglia quotidiana: il nulla o il tutto. Na vita senza senso è già la morte. “Viva Cristo Rey!” “Que viva!”

Dormono le persone in cabina o nei corridoi, mentre scivola lenta la nave verso l’alba. Uno scoglio minaccioso s’avanza nel buio, mentre un faro lontano segnala la presenza di un’isola. Luci sulla costa sono un paese, chissà quale. Il mare appena increspato non fa paura. Albeggia. La schiuma del mare tagliato scorre lungo i fianchi della nave. Veglia il pilota che deve condurci a riva. Cielo a pecorelle verso nord; un bel sereno verso il sole che sta svegliandosi.

Un’amicizia semplice, di fatti semplici, di gioco di bocce, di brevi dialoghi o intensi, di sguardi aperti, di cibo condiviso e scherzi, di p0reghiera, di buone colazioni. Una famiglia, un albergatore, uno skipper, un prete e un pensionato. Un babbo, una mamma e quattro figli, tre ragazzi ed una signorina, due femmine e due maschi, due universitari, uno studente ed una scolara. Tutto qui. Sono gli amici del Destino. Non c’è altro motivo o interesse. Diversi e uniti dall’unica cosa che conta. Semplicemente in vacanza o semplicemente al lavoro. Semplicemente amici. Ognuno per la sua parte, così com’è. Così come semplice è il mare e questi giorni quotidiani, il vanto, il cielo, il sole e la sabbia, la strada e queste piante salmastre. Un solo Destino, che ad alcuni è dato chiamare per nome. Di nome per tutti.


Ecco Livorno.

lunedì, luglio 15, 2013

La mitica III^ B

Se ne stava seduto lì, da ore, sugli scalini del faro, in cima al molo, nel posto che lui tanto amava, da anni, dove la terra finisce unendosi al mare e al cielo. Più oltre solo i pesci ed i gabbiani, lo sciabordio delle onde e qualche nuvola oziosa, ferma lì ad aspettare chissà chi.
Era giunto fino al faro non si sa come, piano, piano, col suo bastone, compagno inseparabile: non avrebbe più potuto stare in piedi senza di lui. Ormai aveva perso tutto, non sentiva più e, quasi cieco, si lasciava accarezzare dal sole, senza vedere più in là di qualche passo di lumaca. Nulla. Solo come un passero d’inverno, aspettava e commosso ringraziava.
Dentro aveva il mondo e tutto ciò che lo aveva riempito nel corso degli anni.
Un giovane gabbiano impertinente o forse solamente curioso, gli si avvicinava spesso, affascinato da quella statua di sale immobile nell’ombra del tramonto che avanzava. Non era più tempo che l’alba lo vedesse con l’aria pungente e frizzantina. I giovani, loro sì, non hanno paura di niente, non temono il freddo, il vento, l’acqua e la bufera, non temono l’amore e la fatica.
Agenore, il vecchio bidello, ripassava spesso le loro facce, ripassava e studiava, li guardava uno ad uno, li riportava in vita: ne aveva visti tanti! Piccoli, appena usciti dalle braccia delle maestre, si stupiva nel vederli crescere e diventare grandi; poi lasciarlo e, ognuno per la sua strada, crescere crescere, mentre lui si piegava sempre più.
Quanti, quanti ne aveva contemplati, consolati, aiutati, ascoltati, sgridati, difesi, godendo in cuor suo per il regalo ricevuto in loro, dopo una vita passata a curare gente malata malato lui stesso!
La ragazzina bellina bellina che si truccava già in seconda, il ragazzino che nessuno voleva come amico perché era brutto e sgraziato, gli occhi sgranati della biondina mentre gli faceva gli auguri di compleanno e quella che entrava tutti i giorni a scuola cantando, il secchione che amava la scuola e chi gli aveva promesso di diventare un grande matematico. Nel lento mutare del tempo, nello spazio compreso fra il sole d’autunno e quello d’estate, tutti si trasformavano sotto i suoi occhi restando se stessi e trasformandosi insieme.
Che meraviglia!
Lui li guardava, li contemplava, con gli occhi che si bagnavano spesso, si aprivano a nuova meraviglia o si chiudevano pensando al loro destino, come un padre, che pur non aveva figli. Ne aveva chiesti dodici, da ragazzo, la maggior parte femmine ed ora, senza merito alcuno, gliene erano dati a centinaia.
Così piangeva, gli occhi semichiusi, mentre il gabbiano ignaro lo fissava, senza capire nulla, forse aspettandosi un po’ di cibo, lui, che vola libero ed elegante dietro le navi, ma non è mai stato bidello e mai lo sarà.
Vedeva - e come vedeva! – nel suo mondo ricco, che fuori non appariva e non si svelava.
Rideva da solo al pensiero di quel ragazzino che gli aveva detto: “Ma perché si chiama corridoio, se non si può correre?” o di quella ragazzina che gli aveva chiesto: “Tu esattamente cosa fai in questa scuola?” e, senza aspettare la risposta, sorpresa gli aveva detto: “Ma tu non fai nulla!” ricevendone in cambio un bel “Brava! Sei la prima ad averlo capito!” e di quell’altra che l’aveva ammonito: “Sei un bidello, ma che non pulisce”. Una volta qualcuna aveva tentato di corromperlo: “Agenore, vieni nella mia classe e di’ alla Prof che hai bisogno del mio aiuto, così esco…” ed ora chissà dov’era, forse a insegnare danza a Londra, forse a ballare a San Pietroburgo.
Agenore aveva un debole per le ragazzine: gli potevano chiedere tutto, le ascoltava pazientemente, si lasciava “fregare” da loro, le difendeva dai maschi, le giustificava davanti ai professori; avrebbe preso anche le botte senza dire nulla, non le accusava mai davanti alla Preside. Lui avrebbe voluto tante figlie femmine!
Amava tutti, tutti erano suoi amici personali, dai piccoli smarriti dei primi giorni di scuola ai grandi “scafati” di terza, che ormai erano fuori da ogni controllo, perché si sentivano grandi  e indipendenti. Li guardava e ripensava a sé, quando anche lui aveva passato le stesse cose, gli stessi drammi, la felicità che non si contiene e il dolore che si affaccia prepotente, inaspettato.
Che grazia aveva avuto!
Sfogliava e risfogliava queste pagine, ormai gialle e ingiallite; vedeva e rivedeva quei volti - chissà dove saranno? – ma quando arrivava a quel capitolo, ecco, piangeva, le lacrime correvano già lente via via più spesse, scendevano a mare e lo addolcivano, salate nel sale più intenso.
La mitica III B!
Presago e testimone, quell’anno si era chiuso così, col nero nubifragio, che aveva sconvolto la loro bella città e li aveva visti l’ultima volta insieme. Quella sera in campagna, coi genitori e gl’insegnanti, bambini ancora ed ormai grandi, avevano giocato, parlato insieme e poi scherzato; le ragazze vestite eleganti - i ragazzi giocavano a pallone - li guardavano sottecchi e un po’ sprezzanti; poi a nascondino correvano qua e là, nel buio cercandosi, svelando e nascondendo ciò che restava della loro infanzia. Che belli! E giù come la pioggia correvano le lacrime insieme al riso. Chi disvelò il suo amore e fu a tutti chiaro, chi tacendo in silenzio e anelando, chi guardando invidioso, chi giocando.
Come ruscelli da colline diverse erano arrivati in quella scuola in riva al mare, smarriti i primi giorni, poi via via audaci e confidenti. Ce n’era uno che non stava mai fermo, girava fra i banchi come una trottola, toccando or questo or quello, mai sazio di avventure; c’era la ragazzina piccola piccola, che avresti detto uscita da una favola e invece era lì con i suoi occhi grandi, ll biondo alto che si vantava dei capelli lunghi, la ragazzona (già allora) che ti guardava coi suoi occhi chiari e le belline degli ultimi banchi e quello sempre fuori dalla porta, la clown della classe e le secchione. C’erano le ballerine e i giocatori di calcio, le cavallerizze ed uno, dicasi uno, che studiava: sapeva tutto e non giocava a pallone. Ad ogni anno che passava, come si conviene, crescevano e cambiavano restando se stessi, i maschi continuavano a giocare a pallone, le femmine parlavano parlavano. Crescevano e facevano impazzire i professori. Tutti geni e tutti “vagabondi”: una classe davvero speciale. Uno due tre ed eccoli all’esame. Il tempo fugge come l’ombra e non indugia. I bimbi crescono, le mamme imbiancano – diceva un’antica canzone. Crescevano e fiorivano, sbocciavano….ed ora “dove saranno?” si chiedeva il vecchio bidello, la cui bellezza non sfioriva nonostante il suo corpo si consumasse. La lungocrinita amante dei cavalli, con quella coda che la faceva amazzone più che mai, con la voce acuta e forte e quegli occhi volitivi e teneri… Mamma? Artista? La pazzerella, che pazza non era, con un cuore ed una mente da fare invidia ad Einstein? Se n’era andata via così, incurante dei pianti di Agenore, che l’avrebbe voluta sempre con sé. Gli aveva promesso “Verrò a trovarti”. Aveva mantenuto la promessa e lui l’aveva aspettata ogni giorno e poi…l’aveva vista alla RAI ed in teatro…chissà erano sogni o realtà?
Una nave uscì dal porto, si confondeva fra le tante ombre, la riconobbe dalla sirena. Pensò ai due ragazzi che erano andati a fare i cuochi quel giorno d’autunno alla ripresa degli studi. Pensò a loro, smarriti e timorosi, sprezzanti per coprire la loro piccola paura dell’ignoto. Erano ora degli chef? Viaggiavano sulle navi o gestivano un ristorante a Piazza di Spagna? Avevano imparato un po’ d’inglese e di spagnolo? Si erano decisi a studiare o viaggiavano ancora fra le loro fantasie e le difficoltà della vita? Erano belli, come tutti. Belli, anche se non ci credevano. Il russo e il brasiliano si erano incontrati sui campi e se le erano suonate come si deve…a calcio? E il piccolo lamentoso, tanto simpatico e amante delle ragazze, onorava adesso la Nazionale Azzurra o si era perso dietro qualche sottana finendo per allenare il Corpolò Footbal Club?  Qualche voce lo diceva Monsignore a Roma… E quello che per anni gli parlava nel corridoio, facendosi buttare fuori dai professori solo per poter fare compagnia al povero vecchio bidello? E l’artista disegnatore di moda che disdegnava il gioco del pallone per poter dare consigli alle ragazze? Chissà se ora era a capo di una “Maison” a Parigi o a Milano?
Come li aveva guardati, ogni giorno, nei corridoi o nel cortile, desiderando per loro tutta la felicità per cui erano nati!
Tutti, come è giusto, se n’erano andati un giorno, alla fine della loro storia di scuola, chi al Liceo – e ancora li aveva visti crescere – chi per altre strade, crescendo e diventando grandi.

Il giovane gabbiano curioso era volato via, le barche uscivano dal porto, piccole e grandi e la città alle sue spalle continuava a vivere. Agenore si alzò prendendo il bastone e s’incamminò. Un bambino col lecca-lecca lo guardava pensoso, con la mano stretta in quella della mamma. Agenore nemmeno se ne accorse, vedeva appena un vago cespuglio di capelli ricci. Strascicava i suoi piedi e inciampando compitava i loro nomi, uno ad uno e tacito in silenzio ringraziava.