Due file di bambini, i
più piccoli seduti a terra. 23 grembiulini neri, colletti bianchi e fiocco al
collo. Il bianco e nero non
rende i colori. Una vecchia casa colonica con pergolato d’uva. Un giovane
Maestro in posa austera e due pagliai a fare da sfondo.
La fine della guerra
non aveva ancora 10 anni e loro appena 6. Le bombe inesplose facevano ancora
paura, ma loro, i piccoli, godevano della vita, in un piccolo paese del
preappennino già glorioso per storia e natali.
Sul promontorio che
chiude la valle e la sorveglia ancora come ai tempi di Roma ed ancor prima, i
giovani marmocchi con le aste e i quaderni cominciavano la loro avventura da
giovani scolari protesi alla conquista di ponti, industrie chissà, di campi da
curare e pecore da pascolare, chi votato per nascita a grandi traguardi e chi
semplice barbiere, chi destinato a viaggi e commerci e chi umile nonno di
nipoti.
La vita è un mistero!
Non c’erano femmine
fra loro.
Le classi
rigorosamente separate, calzoni corti per gli uni, sottane a vita per le altre.
Così almeno si viveva
allora.
La fontanella
all’angolo dell’arco vicino alla scuola non c’è più e neppure i buoi, le oche
ed i cavalli che li incuriosivano nei giorni di fiera, perché la scuola si
affacciava sul campo dove i sensali concludevano gli scambi con una stretta di
mano, che vale più dei contratti a 10 pagine di oggi
Due piani la casetta,
due rampe di scale fino alle aule, che occupava il piano alto, il primo, e gli
angoli utili per il gioco dei quattro cantoni.
I bambini si divertono
con poco: la compagnia degli amici e quello che trovano in giro.
Al Maestro manca
davvero poco per fare 100, gli anni tondi tondi di una vita passata a
insegnare, a mettere su famiglia e nipoti, a soffrire e godere, come ogni uomo,
nel breve tempo, che passa tra la nascita e la morte.
I bambini sono ancora
vivi, qualcuno sì qualcuno no, per vari motivi; ma non hanno più i calzoncini
corti. Uomini, nonni, belli come allora, con qualche ruga in più e allegri come
un tempo.
Attorno alla tavola
lunga della piccola vecchia osteria pasteggiano bevendo e gridano a voce alta e
incurante come nella ricreazione di un tempo, quando si buttavano di corsa giù
per le scale a scendere nel campo.
Il vecchio Maestro
ascolta e li riguarda. “Maestro, l’appello; faccia ancora l’appello. Lì ci sono
i nostri nomi!”. Il Maestro, come allora, invita a ringraziare Colui che ci è padre e tutti insieme, vecchi scolaretti, in piedi, laici e non, in mezzo all'Osteria, preghiamo. Il Maestro accenna a un discorso, un richiamo a essere degni di chi li ha
preceduti in quest’augusta città, piena di storia e di onore. “Desidero essere
ricordato da voi come il maestro dei due pagliai”, lui che era all’avanguardia
nei metodi e nello stile di insegnamento. Maestri si è per sempre.
Una portata dietro
l’altra scorrono i piatti e si riempiono i bicchieri. Un antipastino con triangolini
di piada e pezzi di pane casareccio, dei cassoncini di patate e verdurine a
pezzi cotte e unte quanto basta lasciano il posto piano piano, nel gentile
ossequioso servizio della cameriera, a piatti di ravioli e strozzapreti, pollo
e salsicce, costicce e castrato, con listarelle di pancetta, innaffiato il tutto
da un generoso e sano sangiovese nostrano. Urla, ricordi, risate e commenti si
rincorrono di qua e di là fino a raggiungere un gruppetto di ragazzi nel
cortile, che, vestiti da finti figli dei fiori, li invitano a cantare l’inno
nazionale di questa terra, “Romagna mia”.
Chi ha fatto carriera
e cura gli interessi dei preti, chi si è scoperto artista dopo una vita a fare
l’ingegnere, chi non segue più le pecore dopo la scuola, chi ha fatto il
venditore di una Ditta dal nome famoso in ogni dove, chi ha girato il mondo
vendendo armi antiche, ma funzionanti, e chi in pensione dopo una vita a
dirigere una banca, il più bravo e studioso della classe che, giustamente, ora
è l’ultimo di tutti, tutti godono della reciproca compagnia.
Il tempo non è passato
invano. Il tempo, si dice, è galantuomo e porta a compimento quello che è stato
seminato, come recita la targa di ringraziamento al Maestro di tanta infanzia
“Anche nei terreni più aridi, il seme ben coltivato germoglia”. Il Maestro regala a ciascuno un piccolo libretto di lingua romagnola, che lui non sa parlare, come a farsi scolaro dei suoi scolari, che l'hanno avuta da sempre come lingua madre.
64 lunghi anni sono
passati. I due pagliai non ci sono più. La vecchia scuola ha lasciato il posto
al Museo e la fontanella scorre forse nascosta dietro un muro di cemento. Al
posto del Foro Boario c’è un giardino ben curato e la strada della vecchia casa
colonica è asfaltata e ben percorsa da tante auto. Sul marciapiede che non
c’era 12 uomini e un Maestro rifanno di nuovo la foto, che li ha visti bambini.
Nessuno ha il
grembiule e nessuno siede a terra – siamo ancora capaci di reggerci in piedi
per ora. Quelli che mancano ci sono lo stesso, quelli “partiti” ci guardano dal
Cielo. 64 anni e tanto piacere di rivederci. Non ci sono le donne, come allora,
le mogli aspettano fuori, qualcuna si azzarda a raggiungerci dopo il pranzo,
rimessa subito fuori al suo posto, come al modo romagnolo.
Le donne negli affari
degli uomini…
Saluti,
ringraziamenti, arrivederci ai prossimi 64 anni o no, meglio prima, chissà?
Che bella idea questo
pranzo fra amici di classe!
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