Occorre stare molto attenti a questa storia. Capiterà, infatti, che alla fine vi accorgiate che anche voi volate a testa in giù o che avete volato così fino ad ora o che volerete o continuerete a volare guardando il mondo da sotto in su.
La farfalla stessa lo mise per iscritto la notte in cui il suo amico armadillo dormiva saporitamente in attesa di partire per il New Mexico. Il pensiero di una lunga attraversata nel deserto gli conciliava il sonno. Mah!
Eh sì! Quella volta la combinarono proprio grossa. Gli uomini, sempre loro! Dopo aver confabulato per giorni fra di loro si rivolsero al mastro vetraio, un tipo strano, un forestiero, molto cupo e molto saggio (così sembrava). Veniva nessuno sa di dove, occhi profondi e scaltri, mani perfidamente capaci ed un gran segreto. Si era infilato fra loro non chiamato; anche i topi lo schivavano. Nel cuore della via, sotto un portico antico, aveva aperto l'officina e lavorava.
Uno specchio gli avevano ordinato, perché, passando, potessero ammirarsi le donne e gustare la propria prestanza gli uomini ed i bambini fare le boccacce. Da mettere sotto la torre dell'orologio.
Così bello e pulito lo fece che tutti si stupirono: un gioiello, una vera meraviglia.
Uno specchio magico, si disse. Chiunque, specchiandosi, vedeva se stesso più brutto e tutti i difetti degli altri apparivano evidenti. Anche le nuvole si specchiavano nere e le rondini sembravano cornacchie. Alle ragazze mostrava le gambe storte ed il naso del sindaco rimbalzava come il becco dell'ibis.
Stupore? Sconcerto? No! Meraviglia ed applausi: finalmente il mondo si svelava com'era. Ogni cosa bella era finalmente brutta, com'era da sempre; ma nessuno voleva vedere.
Orgogliosi mostrarono lo specchio per ogni dove e di chiunque si facevano beffe. Anche Marilyn lì dentro era una strega. Decisero di prendersi gioco anche di Dio e schernire gli angeli. Lo portarono in cielo, sempre più su, finché lo specchio non ce la fece più e si ruppe agitandosi in mille pezzi, piccoli, grandi, microscopici. Il più grande finì con la punta nella tundra, la polvere di specchio si sparse in ogni dove, come cenere di vulcano, soffice, impalpabile come talco veneto. Ma, tragico più tragico, ogni frammentino conservava intatta e potenziata la capacità di deformare e svilire tutto.
La farfalla lo prese così, annusando serena un fiore, una bella margherita, con la sua proboscide ricurva, quasi senza accorgersi, inconsapevole e distratta. E, d'improvviso, il campo dietro casa le apparve pieno di spini e la distesa dei girasoli dorati un puzzolente agglomerato di copertoni in disuso.
Cominciò a volare a testa in giù e vide il cielo marrone e non più blu e frammentato e non più liscio e sconfinato. Poveretta, volando a testa in giù, tutto le si era rovesciato.
Camillo, l'armadillo, che pazientemente la portava in giro quando era stanca di volare, lasciando che si posasse leggera sull'armatura nobile e sicura, eredità dei suoi avi, non riscosse più le sue attenzioni.
"Sei un tincone! Non capisci nulla! Sei duro e testardo come un sasso! E vai così piano! Io, invece, volo. E sono leggera. Io!"
Camillo la guardava paziente, con gli occhi piccoli e socchiusi. La vedeva bene: volava a testa in giù; ma lui, zitto, continuava a macinare strada, nel vento e con la pioggia, al sole e di notte. Semplice e deciso. E lasciava che gli si posasse ancora sulla schiena, con qualche difficoltà, perché, atterrando, picchiava sempre la testa.
Volare era sempre stata la sua passione. Era nata così. Da quando era verme e sognava le ali; da quando, finita la prima media (era un po' precoce) le erano finalmente spuntate sul dorso, gialle e nere, con dei piccoli "occhi" rossi, dai colori che la facevano assomigliare ad un Van Gogh, ma molto più bella. Neppure Cezanne o Gaugin, Paul Klee o Chagall avevano mai combinato così bene i colori.
Un giorno fuggì, seguendo un aquilone, scambiato per una cicogna. Grande, libero nel cielo, alto e leggero, legato con un filo, ma capace di volteggiare. Lui la convinse: "Vieni, attaccati a me! Nessuna mano più mi trattiene. Perché resti lì, a pelo d'erba, preda di rondini? E poi Camillo… Puh! Che striscia per terra. Gambe corte, muso lungo, passo incerto. Vola, divertiti, fuggi. Sei tua. Io, anch'io, sono mio."
Il vento caldo di scirocco lo rapì, lo scarrozzò sui monti e le convalli, sui fiumi e sui ruscelli. Via, via, veloce, di fretta, più su, poi giù, poi qua, di là, più rapido del treno, più veloce di una Ferrari.
Augusta, la farfalla, che anche nel nome credeva di essere qualcuna, si teneva aggrappata al filo, ben stretta con le zampe esili. Aveva lasciato Camillo per tenersi a malapena e sballottata ad un pezzo di nylon! E a testa in giù, perché ormai così volava.
"Va bene così! Si! E poi chi me lo dice che il mondo non è come dico io?! Chi vede meglio di me? Libera, ora finalmente libera!
Ci fu qualche rondine che cercò di farle la festa; ma il filo, ondeggiando, impedì la beccata.
Di miglio in miglio
volando sui venti
finì chissà dove
chissà chi l'amò!
Non più voce amica,
la gioia finì,
da sola, sperduta,
un dì si trovò.
"Va bene, va bene.
Adesso sì vedo
e volo per sempre,
son ciò che bramai."
Nessuno più, nel campo dietro casa, sentì parlare di lei. I girasoli si voltarono dall'altra parte e, guardando il sole, dimenticarono anche il suo nome; la digitale, velenosa, ne godette in cuor suo: le aveva dato sempre fastidio così semplice e bella; la talpa uscì dalla tana, fingendo di guardare, riprese il suo vagare; le rondini, un po' dispiaciute, rimaste a bocca secca, si consolarono ben presto dando la caccia ad altri imenotteri.
Il ruscello scorreva uguale e lento, gorgogliando e nascondendosi fra l'erba. Tutto era uguale, tutto al suo posto. Ma lei, Augusta, dov'era?
Camillo, solo lui, non aveva mai smesso di pensarla. Finita la scuola (era andato fino alla Valle del Gatto Innamorato per frequentare il Liceo), decise di partire per Chissà Dove. Nel suo cuore Augusta era sempre viva, sempre presente. Inforcò gli occhiali (anche gli armadilli, ad una certa età, non leggono più bene l'elenco telefonico), prese la sua cartella con tutti gl'incartamenti e l'identikit della sua amica farfalla, salì sulla prima tartaruga d'acqua che passava di là, spacciandosi per un cugino emigrato, e discese il fiume.
Il mare lo accolse all'alba, un po' assonnato ed infreddolito: che fatica stare in equilibrio tutta la notte sul guscio della sua amica!
Interrogò un cavalluccio marino. Nulla.
S'informò presso un tonno, che era partito dalla Sicilia. "Nu sacci'unni!" gli rispose in stretto agrigentino.
Un delfino giocherellone gli suggerì di dirigersi a Corfù: "Tutte le farfalle, d'estate, ci vanno".
Si nascose nella stiva di una nave cargo. Il nostromo lo scoprì sotto una catasta di legname e lo consegnò al cuoco. Il grande chef era un tenerone: dopo averlo guardato negli occhi, lo nascose nella sua sacca ed al primo porto, Dakar, lo accompagnò da un suo amico carrozziere, raccomandandogli di averne cura. Uno stregone di passaggio, moderno quel tanto da viaggiare in Toyota, se lo ritrovò sotto il sedile, convinto che le sospensioni dovessero essere un po' scariche, giacché ogni buca gli provocava un certo dolore proprio in corrispondenza dell'osso sacro. Ma, si sa, la corazza di Camillo, col tempo non si era certo ammorbidita.
Così da Dar Es Salaam a Colombo, via via passando per Macao e per Shangai, piegò su verso Vladivostok, poi volò a Manila. Brisbane lo accolse in un ventoso mattino di Aprile. Un canguro oriundo di San Marino (per parte di madre) lo trasportò saltellando fino alla baia di Perth.
Nel cuore e nella mente sempre Augusta.
Povero armadillo, o mio addolorato Camillo!
Quante gliene aveva combinate la sua amica farfalla!
Una notte d'Agosto, certo per il caldo, si era tolta le ali e così, tutta nuda come un verme, si era messa a camminare sulle mura del castello. "Era caldo" si era scusata. Ma, si sa, quando si vola a testa in giù, tutto quello che è normale sembra strano e lo stravagante perfettamente plausibile. Camillo le aveva gettato addosso un asciugamano poco prima che arrivasse la civetta di ronda. Poi le aveva dato da bere un bel cucchiaino di menta e l'aveva rimessa a letto.
Un bel giorno l'aveva sorpresa volare pericolosamente sull'orlo della grondaia. L'aveva presa delicatamente per le ali, senza toglierle la polverina, e l'aveva appoggiata sul tavolo, chiudendo bene la finestra.
Quante volte Domitilla, la mamma armadilla, l'aveva invitata a pranzo! Oramai Augusta era diventata di casa. Discreta, gentile, premurosa e cordiale, la signora Domitilla preparava per quella strana amica del suo primogenito un cucchiaino di aranciata, che la farfalla succhiava con la sua naturale cannuccia arrotolata, gustandola assieme al riso, di cui era golosamente appassionata, forse per le sue millantate origini orientali.
Una ben strana amicizia! Due animali così diversi! E adesso anche la fuga con l'aquilone, il cuore freddo e sconcertato a causa di quello specchio fatato. Stregato, per meglio dire.
Nell'isola più lontana del più sperduto arcipelago micronesiano, dove le isole hanno le dimensioni giuste giuste per una farfalla, un povero aquilone verde e rosso, stanco e strappato, libero ed infelice, giace sulla spiaggia con la canna di traverso nell'acqua, fradicio e molliccio. Ansima e langue. La sua corsa, senza la mano che lo teneva, è finita qui. Solo e dispiaciuto, senza più filo, né coda, vorrebbe essere a casa.
Augusta è lì, su un iris nero (esistono, caro Mauro!), appollaiata a testa in giù, come un pipistrello in una grotta; ma qui c'è il sole e lei crede di essere a Postumia. Tace. Non fiata. Ha fame. La sabbia è calda, le palme fanno ombra, la terra scotta.
Ohibò! Ma chi si muove?
Due frasche più in là, giusto a sinistra del tamarindo, un guscio si affaccia. Sono due occhi piccoli, socchiusi. Occhiuti, lenti avanzano, pesanti e sicuri.
"Ti ho trovata, Augusta! Ritorna a casa. Che giro mi hai fatto fare!"
Augusta piange. O è la pioggia?
"Camillo, Camillo! Ne ho fatte di sciocchezze. Ma sei tenace!"
La piroga, che fa servizio di taxi un giorno sì e tre mesi no, li raccoglie all'imbarcadero. Camillo e la farfalla.
Di nuovo sulla schiena, di nuovo a testa in su. Le ali ripiegate, frementi, pronte a volare.
Cosa può l'affetto di un amico!
Nel campo dietro casa, Augusta svolazza libera e felice, la stesa di girasoli, il cespuglio di mortella, la rana canterina, la vipera cornuta, la siepe di biancospino, il tiglio profumato. Tutto è bello. Tutto è suo.
Camillo cammina su e giù, ogni tanto la segue con lo sguardo, lui che è sempre stato legato a quel posto.
"Chissà cosa le balena in testa?" pensa.
Alza gli occhi dal libro che sta leggendo.
"Se uno cade, quando si rialza, è sempre un passo più avanti". Glielo ha scritto un suo amico, un elefante bianco (una rarità), con un grosso bugno sotto la proboscide, conosciuto vicino a Monza, dove era anche nato. In un circo, naturalmente, perché gli elefanti, come tutti sanno, nascono in Africa o in India.
Questo, infatti, è un elefante speciale.
Ma questa è un'altra storia, molto bella, che tutti gli armadilli conoscono. Ed anche le farfalle.
A proposito, avete fatto caso se state volando a testa in giù?
Niente paura! Chiedete di Camillo!
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