C’è ancora, ai limiti di un paese tanto bello quanto lontano, una casetta col giardino davanti, quasi addossata ad un'altra casa, lungo la discesa della strada che porta a Zollara.
È una casetta piccola col piano
terra ed un primo piano che basta appena per arrivare al tetto. Due stanze, una
sopra e una sotto e una scala per raggiungere la camera da letto.
Piccola, bella e tanto ricca
perché lì abitava l’Anna.
Era stata la bidella della
scuola, una bella donna anche in pensione. Era stata ragazza durante la guerra,
quella guerra terribile che aveva visto il suo paese ridotto in rovine coi
soldati di entrambi gli eserciti a combattersi casa per casa, mentre i bambini
soffrivano la sete e raccoglievano la rugiada dalle foglie per trovare sollievo
L’Anna aveva conservato il cuore di una bambina e, ancora anziana, serviva il
parroco e la chiesa con un affetto semplice, tenace e risoluto.
Non negava il suo aiuto a nessuno
e accudiva i gatti randagi che vagavano in paese, certi della sua premura e
accoglienza. Amava la vita in ogni sua forma. Il suo giardino era ordinato e
anche il sentierino che portava alla porta di casa era pulito e decoroso.
Anna era nata “per sbaglio”,
rifiutata appena era venuta al mondo. Sua mamma, vedova, era stata ingannata da
un uomo che diceva di amarla con la promessa di mantenere quella famiglia
povera, ma era sparito appena Anna era venuta al mondo, non mantenendo fede
alla parola.
Era cresciuta e non si era sposata.
Tutta la sua vita dedicata ai bambini e al parroco. Anna aveva sposato la gente
di quel paese e la chiesa.
Ho avuto la fortuna di
conoscerla. Era una santa, una di quelle donne di cui parla Solzenicyn ne “La
casa di Matriona”: “Le eravamo vissuti tutti accanto e non avevamo compreso che
era lei il Giusto senza il quale, come dice il proverbio, non esiste il
villaggio. Né la città. Né tutta la terra nostra”. Lei era la Matriona di
Gemmano.
Aveva servito il parroco nel
periodo burrascoso dell’invasione nazista e del passaggio dei Canadesi che
inseguivano i nemici, gli fu accanto nei giorni della ricostruzione, lo
accompagnò nella malattia fino alla morte quando fu chiamato come servo fedele dal
suo Signore, servì i parroci che seguirono fino a quando giunse, accompagnato
da me, don Stefano. Lo sgridava perché lo vedeva sempre in giro indaffarato fra
le case e la scuola lontana; ma gli fu sempre vicino.
Servì con dedizione anche la
sorella vedova venuta nel paese per concludere i suoi giorni lì dov’era nata
accompagnandola con amorosa dedizione, come aveva assistito chi le aveva dato
la vita con grata riconoscenza.
Tutta la sua vita in quel paese,
in quelle poche case sulla cima di un monte, che guarda il mare e vede anche
dall’altra parte di esso nei giorni belli e limpidi. Pian piano invecchiò con
gli acciacchi tipici dei vecchi che spendono gli ultimi talenti, il cuore
ballerino e sempre pronto a fermarsi.
La trovarono una mattina così,
serena, nel letto dove si era coricata la sera prima. La trovarono nel silenzio
circondata e vegliata dai gatti che aveva sempre nutrito e accolto. Gli
facevano corona, accovacciati intorno al letto e ai suoi piedi, veri garanti
davanti al buon Dio della sua innocenza, conservata fino all’ultimo respiro.
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