Non
so cosa darei per rivedere quella bambina di 9-10 anni, che mi guardava
contenta con la bocca spalancata aggrappata all’asta della doccia in spiaggia
quel giorno d’estate in cui, chissà perché, avevo proposto le Olimpiadi ai
bambini del Centro Spastici e Miodistrofici di Brescia e ai loro fratellini
sani.
Un
richiamo, una specie di dolce grugnito – non sapeva parlare – e io mi volto, la
vedo commosso e affascinato, volto la testa e chiudo gli occhi, stupito da
tanto osare e da tanta grazia. Ancora mi si bagnano gli occhi.
Dopo
le gare, stupende, i cui unici spettatori eravamo noi, il giudice e i piccoli
atleti, sulla sabbia di una piccola frazione del Comune di Cervia, Pinarella,
decido e propongo le premiazioni, vere, con medaglie vere, di spago e di
cartone.
E
Lei, lei, la piccola signorina che oggi, a Dio piacendo, sarà una donna matura,
lei che non si era mai messa in piedi perché non era mai riuscita fin da
piccola, in nessun modo, da sola, come un ramo di edera si era avvolta al palo
della doccia, ora avvinghiata sorrideva e godeva del suo essere in piedi con la
bocca aperta e gli occhi…solo in Paradiso si guarda così. Dio, non reggo lo
sguardo, chi sono? che felicità m’invade? che gioia mi chiude gli occhi.
L’abbraccio,
l’abbraccerei ancora adesso, Covid o non Covid. La prima Medaglia di Cartone è
la sua. Ha vinto tutto d’un colpo, mi ha inferto un knock out difficile da
scordare.
Quei
bambini. Quei genitori…
Quanti
di loro…chissà?... quella mamma bellissima, occhi e capelli neri, che mi ha
chiesto: “perché proprio a me?”. Non so che dire, la guardo, stacco le mani dal
suo piccolo “vegetale” e le dico. “Non so. Dio ha molta fiducia in Lei; io non
saprei portarlo”. Che cosa dico? Fugge in pianto. Bellissima, giovanissima. Lo
credo ancora oggi. Dio aveva molta fiducia in lei; ma a me cosa scappa detto?
Torno a lui, lo guardo: nulla di nulla, immobile, una piccola pianta, lo
sguardo nel vuoto, nessuna reazione. Mi allontano, decido: “Non serve a nulla.
Appendo le mani al chiodo. Basta. Il mio lavoro è inutile. Lo guardo negli
occhi senza fede. Un brillìo, un lampo, un attimo, minuscolo e nella mia testa,
nella mente una voce, fisica: “Io ci sono!” Poi nulla. Stesso sguardo nel
vuoto, stessa immobilità. Sono solo. Capisco. Torno a fargli le stesse cose
“inutili”, forse non cambierà mai, la piccola pianta immobile che ha fatto
piangere sua mamma senza volerlo – forse non si è nemmeno resa conto – Sì.
Continuerò a fare il fisioterapista, le stesse cose “inutili”, perché Lui c’è,
lui c’è. Non so come, ma c’è.
Chissà
quante lacrime amare avrà versato sua mamma ancora, la bellissima donna con gli
occhi neri e i capelli neri, che ora sarà, se Dio vuole, una bellissima signora
anziana con la testa bianca e la sua “piantina” chissà, che ha salvato un
giovane fisioterapista alle prime armi, decisamente pazzo e sempre tentato di
dire che tutto è inutile, perché, prima o poi, tutti si muore e allora che cosa
vale la pena? Zitto immobile, l’ha salvato! Qui salvandos salvas gratis…un
bambino che tutti considerano inutile e che era stato mandato a sua mamma
perché unica capace di averne cura. Lei.
I
fisioterapisti sono tutti un po’ matti, ma c’è chi matto lo è davvero e anche
violento. Mi fa ancora un po’ saltare la mosca al naso quel bambino che,
sfacciatamente, da birichino, non voleva fare la terapia e le studiava tutte.
Non bastavano le carezze, gli inviti, le sollecitazioni per fargli capire che
era conveniente per lui muoversi quel poco, fare gli esercizi. Non si
arrabbiava, non si intristiva, semplicemente irrideva, prendeva in giro, per
dirla così., finché un bel giorno di sole, caldo, cocente, nell’ora più tosta,
l’ho preso e l’ho portato di peso in mezzo alla sabbia a circa 150 metri di
distanza da tutto, un campo da calcio e forse più di lunghezza e gli ho detto:
“Adesso torni da solo”. Sua mamma era lì e guadava stupita. “Guai a Lei se lo
va a prendere” dissi arrabbiatissimo. Senza berretto, solo coi mutandini da
bagno. “Voglio proprio vedere se si muove o no” pensai…e me lo dimenticai lì.
Sua mamma fu brava, non andò a prenderlo e lui, dopo un’ora e mezzo me lo
trovai lì, fuori della porta della cabina che ci faceva da piccola palestra “da
campo”. Contento e sorridente. “M’è andata bene” pensai. Per la prima volta
gattonando aveva superato se stesso. Ci eravamo sfidati e lui aveva vinto.
Diventammo amici; cominciò a lavorare e m’insegnò molto.
Le
mamme ci sono con questi bambini, soffrono, pregano, ma non indietreggiano.
Sono figli come gli altri. I babbi ci sono, ma non ci sono. Hanno una presenza
fisica, utile, necessaria; ma non ci sono. E’ strano, ma noi maschi siamo così
e lo ritrovavo anche in me. Guardiamo questi bambini, ma non capiamo. Quei
genitori maschi non facevano mancare niente, presenti e assenti al tempo
stesso. Le mamme no. Le mamme li portano dentro e li portano fuori, perché sono
pezzi di cuore, come si dice. Soffrono, anche molto, ma non indietreggiano, non
fanno passi indietro. Sono loro. I babbi sono smarriti, come se non si
rendessero conto fino in fondo e si aspettassero un miracolo, come i sogni del
mattino. Sono loro, ma non sono loro. E’ davvero strano. Figli senza futuro,
figli che non continueranno la loro opera.
Tranne
uno. Questo babbo, anziano ai miei occhi, ma appena più grande, dirigeva il
campo. Lui era presente. Eccome. Babbo come tutti, anche suo figlio era lì,
come gli altri, eppure così attento, così presente a tutti. Non aveva problemi,
sereno davanti al figlio e ai figli “sani”, perché la genialità era quella: la
vacanza era per tutta la famiglia, fratelli e sorelle, tutti, grandi e piccoli,
sani o con handicap. Suo figlio era come tutti i bambini e tutti i bambini
erano come suo figlio.
C’era
il bambino Down intrattabile se non con la musica e la bambina, la mia prima
piccola paziente, che nel mio cuore ha un posto speciale. Non avevo nemmeno
un’idea di come si mettono le mani su una bambina affetta da spasticità e
volevo scappare. Ringrazio ancora la mia collega, la mia amica, che, con uno
sguardo deciso, dopo avermi sollecitato più volte, se ne usci dalla
“palestrina” lasciandomi solo con la piccola che mi guardava. Appoggiai le mie
mani e cominciai Dio sa come a trattarla. Ad un certo punto lei si addormentò
ed io vidi, stupito, sparire la spasticità sotto i miei occhi. Non credevo ai
miei occhi: quelle braccia rigide, quelle gambe da canocchia adesso stavano
dove le mettevi. Nessuno ancora mi ha dato la spiegazione, ancora adesso che
non lavoro più. La spasticità nel sonno non esiste. Si svegliò e tutto cominciò
come prima. Le sue piccole braccia rigide e incostanti. Le sue gambe che non
andavano dove lei voleva e gli occhi che mi guardano con una domanda infinita.
Lei,
che chissà… Lei che mi ha dato tanto, che un giorno spero, come tutti gli
altri, di rivedere, ai quali chiedere scusa per la mia goffaggine, per la mia
incomprensione, pigrizia e pochezza.
Un
amico carissimo, al mio rassegnato dispiacere di non poter più lavorare come
fisioterapista, rispose: “Cosa c’è di meglio che fare la volontà di Dio?”
Ecco
la volontà di Dio… e questi piccoli compagni di strada che allora, come oggi,
mi tengono per mano fino a ritrovarci tutti, perché io non so dove lei, la
piccola tenace “olimpionica” ora sia e come sia, so che c’è e ci ritroveremo, e
neppure gli altri dove sono, ma ci ritroveremo, lo so, magari dove le Medaglie
di Cartone sono d’Oro e d’oro zecchino come non se ne trovano al mondo e non se
ne troveranno mai in nessuna miniera.
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